AREZZO, 12 AGOSTO 2011 - «NON MI CHIEDE se sono felice?». L’ultima domanda Daniele se la fa da solo. E si risponde senza esitazioni: «Sì, sono felice, perché finalmente ho trovato il senso della mia vita: servire la Chiesa». Daniele Leoni alla soglia dei quarant’anni ha trovato la sua strada, quella che dopo la conclusione del seminario, lo porterà a vestire l’abito talare. Fin qui nulla di strano, se non fosse che per quasi 20 anni ha indossato la tuta mimetica e pilotato elicotteri da guerra. Ufficiale dell’esercito con il grado di capitano, la sua carriera inizia subito dopo il diploma al liceo scientifico di Arezzo: nel suo curriculum missioni in Albania, Kosovo, Bosnia e per ben due volte in Iraq. «Fin da bambino la mia unica passione era giocare ai soldati, fare la guerra». Leoni, nonostante i dubbi della famiglia, si arruola nel 1991 alla scuola artiglieri di Bracciano. Lo scorso anno un’altra svolta nella sua vita con il congedo dall’esercito. Adesso frequenta il seminario a Rimini, sua ultima destinazione nell’esercito dopo Viterbo, Frosinone e Casarsa della Delizia. Con un sogno: diventare prete fra tre anni, al termine del percorso di studi teologici.
 

Leoni, com’è arrivata la vocazione?
«Dopo la cresima ho smesso di frequentare la messa, per me la religione non esisteva più. Poi Dio si è fatto avanti. Era rimasto per anni sullo sfondo, eppure ha fatto sentire la sua voce. Devo ringraziare un’amica che mi ha fatto molto riflettere sulle parole del Vangelo. Oggi so che Dio esiste e mi ha chiamato».
 

Sì, però non negherà che il militare usa la violenza fino a uccidere, il sacerdote predica fratellanza e pace. Come si conciliano due figure così distanti?
«Lo sa che le parole che si pronuciano prima dell’Eucarestia ‘ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato’ sono parole di un centurione pagano che così esprime la sua ammirazione per Gesù, la sua umiltà e la sua preghiera per la guarigione di un suo servo? Il servizio militare non è nient’altro che la difesa di coloro che sono aggrediti ingiustamente. Anche a costo della morte propria o dell’aggressore, che però è colpevole».
 

Con l’elicottero ha solcato i cieli più complicati del pianeta. Una vita da top gun. Cosa lasciano esperienze del genere?
«Servire il proprio Paese all’estero è un motivo di incredibile orgoglio. L’esercito è una delle cose migliori che abbiamo in Italia. Resta l’angoscia di assistere a tanto dolore, a tanta disperazione. Ho visto anche qualche amico morire sotto il fuoco nemico: uno strazio che non si racconta».
 

Già dieci anni fa si era messo in aspettativa dall’esercito, poi è rientrato.
«Sì, nel 2001 ho sentito forte il richiamo della Chiesa. Ho fatto un percorso di approfondimento che è durato dieci mesi. Ma alla fine non mi sono sentito pronto per un passo così importante e sono tornato in caserma. Non è stato facile, gli sfottò dei commilitoni si sono sprecati, pur senza cattiveria. Nel 2007 ho iniziato un nuovo percorso in seminario, stavolta a Rimini. A ottobre farò richiesta di ammissione a diaconato e presbiteriato. Stavolta non ci ripenso».