Rimini, 10 novembre 2011 - SE QUEL morto per overdose non si fosse chiamato Marco Pantani, forse Fabio Carlino non sarebbe mai stato condannato. O almeno non a quattro anni e mezzo di carcere. Questo il senso della requisitoria con cui ieri il procuratore generale di Cassazione ha chiesto l’annullamento di buona parte della pena inflitta all’ultimo imputato per la morte del Pirata. I giudici sono andati oltre, con una sentenza di annullamento dell’intera condanna perchè il fatto non sussiste, e senza rinvio in Appello. Per Carlino finisce qui. «Un incubo che si chiude — manda a dire lui — spero solo che in futuro il mio nome non venga più associato alla morte di Pantani». Al suo sollievo fa da contraltare la furia di mamma Tonina: «E’ una vergogna — tuona da Cesenatico — non c’è giustizia. Ma non finisce qui».

NON PITTORESCO come l’amante russa del campione, Elena Korovina (assolta in primo grado), il leccese Carlino aveva trovato a Rimini la sua terra dell’oro, impiantando un’agenzia di ragazze-immagine. Secondo gli inquirenti, era il suo appartamento la ‘base logistica’ degli spacciatori che uccisero Pantani, trovandosi a due passi dal residence Le Rose, dove il 14 febbraio del 2004, il Pirata consumò la sua ultima tappa. Carlino era convivente e amico dello spacciatore del Pirata, quel Fabio Miradossa reo confesso e già condannato a quattro anni e dieci mesi di carcere, così come Ciro Veneruso, il ‘cavallo’ che recapitò la droga a Pantani. Per l’accusa non c’erano dubbi, l’ultima cessione di coca era stata fatta con la collaborazione di Carlino.

LUI si era difeso sostenendo che si era solo limitato a metterli in contatto, sapendo che le pressanti richieste di droga di Pantani a Miradossa, (in quel momento rintanato a Napoli per sfuggire alle sfuriate di mamma Tonina), avrebbero finito per mettere nei guai anche lui. Forse moralmente responsabile per aver cercato così di toglierselo di torno, ma non certo uno spacciatore. E non era stato lui, aveva giurato, a indicare al ‘fattorino’ dove dormiva il Pirata. Finito sul banco degli imputati, era stato condannato a quattro anni e mezzo, sentenza confermata in Appello. I suoi difensori avevano presentato ricorso in Cassazione.

«HO la sensazione — aveva esordito ieri il procuratore generale, Oscar Cedrangolo — che la notorietà del personaggio e la spettacolarizzazione data dai media alla sua morte abbiano influito nella distribuzione, in misura eccedente, delle responsabilità per il suo decesso».