Rimini, la trans stuprata si appella al Colle: "Ora fatemi diventare italiana"

La peruviana ha incastrato il branco. Lettera al questore

L'arresto di Guerlin Butungu, 20 anni, presunto capo branco di Rimini (foto Migliorini)

L'arresto di Guerlin Butungu, 20 anni, presunto capo branco di Rimini (foto Migliorini)

Rimini, 25 novembre 2017 - «Fatemi diventare italiana». Stuprata dal branco e testimone chiave dell’inchiesta che ha portato all’arresto dei quattro giovani violentatori, ora la transessuale peruviana si appella al presidente della Repubblica per avere la tanto sospirata cittadinanza. Il suo avvocato, Enrico Graziosi, ha già inoltrato la richiesta al questore di Rimini. E a perorare la causa della donna è proprio Maurizio Improta perché, dice, è stato grazie al suo grande senso civico e alla sua forza d’animo che la Polizia è riuscita ad arrestare le belve che hanno terrorizzato la riviera.  Ultima di sette fratelli, era venuta in Italia 15 anni fa con il sogno di una vita costruita sul lavoro e la tranquillità. Per diversi anni c’era riuscita, aveva aperto un’impresa, prima con il compagno poi con la sorella. Ce l’aveva messa tutta, raccontano, ma la vita le si era rivoltata contro come solo lei sa fare. «Rimasta sola e senza possibilità economiche – scrive il suo avvocato nella richiesta di cittadinanza – si era arrabattata in piccoli lavori, senza riuscire a trovare un’occupazione stabile». Non le era rimasta che la strada, una vita a cui non si era mai omologata, rimanendo sempre isolata dalla comunità di quel sottosuolo, riservata e vergognosa per i gradini che era stata costretta a scendere. Giurando a se stessa che li avrebbe risaliti tutti. La notte del 25 agosto, aveva incrociato la banda degli stupratori che prima di lei avevano già massacrato un’altra ragazza. Ma era stata proprio la peruviana a incarnare la nemesi di quelle quattro belve». «E’ in questo contesto – scrive ancora l’avvocato – che dà prova di forza e spessore morale non indifferente, concentrando le sue energie nel ricostruire l’identikit degli aggressori. Ha trascorso ogni momento successivo alla loro cattura negli uffici della questura, sforzandosi di ricordare ogni particolare di quella terribile notte». Mettendo da parte un pudore che, sapeva, in quel momento non avrebbe aiutato gli investigatori.

«Mai una parola di odio, scomposta o desiderosa di vendetta, ma solo una sacrosanta richiesta di giustizia a tutela non personale, ma della collettività, di cui sente di fare parte e con cui condivide valori e principi, forse spesso dati per scontati da chi italiano lo è già». Stringendo i denti e mettendoci la faccia, è stata l’unica vittima a essere sempre presente a ogni udienza del processo che ha condannato il capo branco, Guerlin Butungu, a 16 anni di carcere. Guadagnando un rispetto da parte della gente che poche ‘donne da marciapiede’ possono ottenere. 

Nemmeno il questore Improta ha dubbi. «Ritengo che se lo meriti. Senza mettere da parte il ruolo di vittima e quello che ha sofferto, le sue continue, costanti e precise testimonianze, essersi aperta con le forze di polizia a raccontare particolari, essersi resa disponibile non solo in quegli otto giorni intercorsi tra la violenza e gli arresti, ma anche durante tutto il periodo successivo, la sua lucidità e, è il caso di dirlo, il suo alto senso civico, hanno consentito a polizia e magistrati già nell’immediatezza, di disegnare una cornice investigativa ricca di particolari. La sua volontà manifestata fin dai primi tempi di riscatto e di rivalsa, mai di vendetta, hanno fatto emergere una figura umana che appartenendo alla schiera degli invisibili, con un riconoscimento come quello della cittadinanza, potrà invece entrare a far parte a pieno titolo di chi può avere una chance per ricominciare una vita alla luce del sole». La richiesta è stata inoltrata, ora l’ultima parola spetta alla presidenza della Repubblica. Nel frattempo, lei ha voluto fare del dolore un’occasione, e ha lasciato la strada.