Rimini, 31 ottobre 2013 - RIMINI, vent’anni dopo. «Sembrava che mancasse qualcosa. Nella sua città natale, dov’era Fellini?», si chiedeva l’inviato del New York Times, spedito a giugno in Italia per risolvere il mistero della città che ha ucciso il suo più grande genio. Omicidio passionale e premedidato. Diceva Federico Fellini: «Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. È una sorta di blocco». Reciproco, così almeno sembra a solcare l’indifferenza tra le pietre di piazza Cavour nei giorni di tributo universale. Quel sentimento di noncuranza mista a invidia di cui parla oggi la nipote Francesca, unico custode in terra del patrimonio genetico e culturale dello zio.

A VENT’ANNI dal novembre di fanfare e solenni impegni restano soltanto una manciata di cartelli stradali, la facciata dell’aeroporto, un cinema in cantiere, l’epitaffio della Fondazione, e decine di insegne luminose: pizzerie, alberghi, piadinerie, negozi. In un festival del cinema felliniano, allestito da chi, molto probabilmente, un film di Fellini non l’ha mai visto. Finisce tutto con Amarcord, il più riminese, il più facile per chi è nato tra l’Adriatica e il mare.

AL BORGO sopravvivono i murales, ma c’erano anche prima. La piazza della Marina l’hanno ribattezzata Fellini, come le stradine che salgono dal lungomare all’interno: via Luci del Varietà (1950) già via dell’Esperanto; via Giulietta Masina già via Zamenhof; via Lo sceicco bianco (1952) già via Chopin; via I vitelloni (1953) già via Mozart. Una strage di musicisti, per piegare alla toponomastica le ragioni del cuore.

AL CIMITERO c’è la tomba. La prua di Arnaldo Pomodoro, fredda e tagliente come certe giornate in cima alla ‘palata’ del porto, dove non c’è traccia dei vitelloni e del loro cantore. Più su svetta il Grand Hotel, bianco e pannoso come le donne felliniane, e qui la memoria si riconcilia con il mito. Russi e americani fanno a gara per aggiudicarsi la suite Fellini, mentre negli angoli più nascosti sembra ancora di vedere il Maestro e quei ragazzi che ‘ballavano sulla terrazza tenendo tra le braccia la nebbia’. Parole di Sergio Zavoli che restano, mentre la politica evapora come l’impegno «vincolante» preso nel giorno del funerale davanti a migliaia di riminesi di conservare la memoria del regista. Doveva essere la Fondazione Fellini invece è finita in liquidazione, coperta di debiti e vergogna, un carrozzone avviato alla rottamazione.

AL VECCHIO cinema Fulgor adesso ci sono gli operai. Dante Ferretti, il premio Oscar, ha progettato una piccola sala e il museo Fellini. Dicono che aprirà tra due anni. In un paese normale avrebbe già macinato milioni di biglietti. A New York si sono inventati il tour Sex and the City, un giro per vetrine e locali alla moda sull’onda del successo di Carrie e compagne. A Roma hanno fatto i quattrini con Angeli e demoni, chiese e monumenti calati nel film. A Rimini, dove ogni angolo è un pezzo di storia del cinema, nulla. Non c’è traccia del viaggio onirico di Federico, è come se tutto fosse posticcio come i fondali usati a Cinecittà per ricostruire l’«altra Rimini», quella di cui Fellini non aveva paura. Lui, raccontano, in quella vera ci veniva di notte. Affinchè restasse un sogno.

Carlo Andrea Barnabè