Rovigo, 13 agosto 2010 -  Dal vescovo Lucio Soravito arriva la ‘scomunica’ all’ipotesi di costruire nell’ex base missilistica di Zeno il centro di identificazione ed espulsione dei clandestini per la regione Veneto. Dopo il no dei sindaci dei Comuni dell’Alto Polesine coinvolti nella discussione e dei sindacati di polizia, anche il pastore della diocesi chiude le porte alla struttura per migranti irregolari che, prima del cambio di rotta polesano del ministro degli interni Roberto Maroni, avrebbe dovuto sorgere in provincia di Verona.

Ma se il rifiuto dei primi cittadini, per lo più a capo di giunte di centrodestra, è motivato dal fatto di non essere stati consultati dal Viminale, Soravito, già vicario episcopale per i laici nella diocesi di Udine e friulano di nascita, sceglie, invece, d’intervenire sul nocciolo della vicenda stigmatizzando i centri di identificazione ed espulsione anche sulla base di quanto accade nella sua regione di origine.

«Il problema — dichiara il vescovo di Adria-Rovigo — non è se costruire o meno il Cie a Zelo, ma se tali strutture rappresentano la strada giusta per risolvere la questione immigrazione. Personalmente, sono convinto che questa non sia la soluzione. Conosco la realtà di questi centri di raccolta. Andate a vedere quanto sta accadendo a Gradisca di Isonzo. In quel paese il Cie è diventato un vero e proprio carcere con tutti i problemi di salvaguardia della dignità umana e di sicurezza per gli ospiti e il personale in servizio».


Una situazione, quella friulana, raccontata proprio alcuni giorni fa sulle pagine del Resto del Carlino dal sindaco del paese in provincia di Gorizia, Franco Tommasini. Rivolte, fughe d’immigrati e la paura della popolazione locale che solo dopo qualche tempo e diverse mediazioni è riuscita a metabolizzare la presenza del centro sul proprio territorio.

Ma per Soravito, davanti a costruzioni come il Cie, non ci sono compromessi percorribili. Anzi, il vescovo esorta i polesani a guardarsi indietro e ripensare alla propria storia d’emigranti. Dal pastore arrivano interrogativi che scuotono le coscienze. «E’ questo il trattamento che noi polesani vogliamo riservare agli immigrati? Proprio noi che abbiamo dovuto andare emigranti in Italia e all’estero, a centinaia di migliaia, prima e dopo l’alluvione del 1951? E’ questa l’accoglienza che abbiamo ricevuto?».

Poi chiarisce: «Non voglio entrare nel dibattito politico sull’opportunità di realizzare il centro d’identificazione in Polesine. E’ una questione politica che non mi compete. Dissento, però, in maniera decisa dalla scelta di costruire un centro di identificazione ed espulsione in qualsiasi luogo». Insomma, non è un problema di natura territoriale. In ballo c’è il tema cristiano - e non solo - dell’accoglienza nei confronti del prossimo.
Secondo Soravito con i Cie «non si aiutano i fratelli immigrati ad inserirsi nel nostro tessuto sociale. La questione non si risolve, ma la si acuisce.

Se non c’è lavoro, va detto ai migranti al fine di evitare false illusioni. Allo stesso tempo, se qualcuno di loro delinque, è giusto che sia rimandato nel suo Paese. Ma, premesso tutto ciò, non si possono chiudere delle persone dentro centri di raccolta che in realtà sono delle carceri, semplicemente, perché non in regola con il permesso di soggiorno». E, se l’assessore del Comune di Rovigo alle politiche dell’immigrazione, Bruna Pineda, ha definito i Cie dei veri e propri «lager», il vescovo smorza i toni, anche se nelle sue parole la tradizionale diplomazia ecclesiale sembra messa a dura prova. «Chiamiamoli pure — chiosa il vescovo — campi di raccolta, ma in mente mi vengono espressioni ben diverse per descrivere la reale natura di queste strutture».