Rovigo, 10 settembre 2011 - Secondo Giancarlo Caselli, ex procuratore capo di Palermo «Ha sempre avuto il merito di intuire il nuovo che avanza, ma senza subirlo». Don Giuliano Zattarin è un prete senza età, senza orario ma con una bandiera. Quella dei più deboli, dei bisognosi, degli ultimi. Ieri mattina don Giuliano, tornato dalla missione brasiliana di Caetitè, per prima cosa è andato a Pezzoli a fare visita agli anziani, poi è passato per alcune case a salutare i suoi ex parrocchiani accompagnato dal fido Ermanno Scaroni. Nel pomeriggio a San Martino di Venezze sono iniziate dopo la messa le manifestazioni per celebrare i suoi 40 anni di sacerdozio. Una storia lunga la sua, da pastore scomodo, come lo hanno definito, costellata di difficoltà, silenzi e incomprensioni, mettendo sempre al primo posto il prossimo. Nato a Sossano (Vicenza) da una famiglia di contadini, don Giuliano ha peregrinato per una decina d’anni nel Veneto. Parroco a San Martino di Venezze, dove adesso ritorna, poi ad Arquà Polesine, nel 1978-1979 decide di entrare in fabbrica, per l’ esperienza del prete operaio: «Ho lavorato per un anno come falegname in un paesino del Trevigiano, a Moriago della Battaglia. __ Mi sono fatto le ossa, ho capito quali sono i veri problemi della gente». Poi il trasferimento a Milano dai Servi di Maria a San Babila e quindi altri 12 anni a Badia Polesine , prima di approdare a Sariano e quinidi a Pezzoli sempre in Polesine. Ora cura le anime a Caetitè in Brasile, una zona di povertà, «ma che non si deve chiamare miseria».
 

Don Giuliano che significato ha per lei questo anniversario in uno scenario italiano e globale in subbuglio?

«Rappresenta un momento in cui mi faccio molte domande, in cui mi interrogo sul senso della vita, sui percorsi fatti e da fare. Vedo che la gente lotta e sogna credendo in quello che fa. Avverto la loro preoccupazione e la loro paura, ma anche la necessità di sentirsi vivi, la loro voglia di partecipazione nella vita ecclesiale e sociale senza separare la fede dalla vita. Mi viene in mente quello che ha detto giorni fa Ermano Olmi al festival del cinema di Venezia: i cattolici si ricordino di essere cristiani. Quella dei cattolici è una sfida continua, che implica una grande responsabilità».
 

Dica la verità, ce la faremo?

«Dobbiamo farcela. C’è ancora gente che pensa e questo è un segno positivo. Credo che dobbiamo cominciare a recuperare legami, sogni, desideri, speranze e far crescere dentro di noi qualcosa di nuovo».
 

Nella società mediale di massa, dove dominano l’arroganza del potere e la manipolazione, si fa fatica a stare dalla parte degli ultimi?

«Mi pare che il difetto sia oggi quello di accomodarsi. Tutti si accomodano, anche la Chiesa ha questa tendenza. Invece dovremmo incomodarci cioè avere coscienza critica, aprire gli occhi sui problemi, camminare con fede di fronte alle difficili sfide della vita. Dovrebbe essere una scelta esistenziale. Il grande poeta russo Majakowski diceva ‘spero di non provare mai vergogna per essermi adattato».
 

Precari, disoccupati, disorientati, arrabbiati e anche disperati: quanto è perduta la gioventù italiana?

«La nostra gioventù è recuperabile. Ho visto l’ultimo film di Bentivoglio, è meraviglioso. Si parla di musica, arte, sogno, di Pasolini e Virgilio. Fede e bellezza salveranno i giovani. Oggi invece sono più in crisi gli adulti».