Un leader, due poltrone

QUESTA direzione va, ad esempio, la predilezione del premier per figure “tecniche”, ma – soprattutto – la centralità della Leopolda come luogo politico (fiorentino) che ha fatto incrociare diverse personalità poi utilizzate per posti chiave e dal quale Renzi ha delineato i suoi obiettivi. In sintesi, dunque, constatiamo da un lato la difficoltà del partito a funzionare a livello locale, dove si lamenta anche un crescente impoverimento della partecipazione, dall’altro un’accentuata personalizzazione a livello nazionale con una marcata autonomizzazione della leadership dal partito. Quest’ultimo fenomeno in realtà è proprio della più generale tendenza verso la “presidenzializzazione” dei partititi. Tuttavia, nel caso del Pd esso, oltre ad apparire estremo, sembra andare a scapito del funzionamento della struttura; ciò anche perché Renzi ha conquistato la segreteria in una fase di crisi del partito, ma ad esso non ha mai rivolto i propri sforzi, giocando la propria ambizione solo sull’azione di governo – anch’essa svolta attraverso una personalizzazione che non ha paragoni in altri paesi. Da qui lo stallo nel contesto locale.

COSÌ si moltiplicano le richiese di maggiore impegno, o, come nel caso di Violante, di una separazione tra la figura del segretario e quella del capo di governo. Ma proprio a questo proposito la situazione appare complicata: la sovrapposizione delle leadership di governo e di partito è funzionale ad un’efficace azione di governo; al tempo stesso, però, nel caso specifico l’azione del leader-premier pone il partito in una posizione meramente accessoria alla sua estemporanea ed eccentrica leadership di governo, centrata sul presente. In altre parole, si chiede al leader di governo qualcosa che non può e non deve fare e al segretario qualcosa che non gli interessa fare. Difficile capire quale possa essere la soluzione.