1890: comizi e cannonate, nasce il Primo maggio. L'invito alla prudenza di Andrea Costa sul giornale

Quello di fine Ottocento è un decennio di fuoco

Andrea Costa

Andrea Costa

Bologna, 26 aprile 2015 - UN DECENNIO di fuoco quello che portò alla fine dell’Ottocento. O meglio, un decennio in cui la questione sociale, nell’Italia ancora precariamente unita, scoppiò in tutta la sua urgenza e la sua asprezza. E sì che nel 1891, quasi a benedire l’epoca che ci avrebbe portati dentro al drammatico secolo della modernità, papa Leone XIII aveva promulgato la ‘Rerum Novarum’, la prima enciclica rivolta al mondo del lavoro, con le sue esortazioni agli operai a non imbracciare la violenza e l’ammonimento ai padroni a introdurre più umane condizioni di lavoro. Grande passo avanti di un pontefice, che pure non bastò a impedire che il decennio si chiudesse – maggio del 1898 – nel massacro (si parlò addirittura di 300 morti), compiuto dai cannoni dell’esercito sotto la guida del generale Bava Beccaris, dei manifestanti che a Milano chiedevano lavoro e pane.

Il 27 aprile del 1890, il ‘Carlino’ ospitava un messaggio, un appello di Andrea Costa datato da Parigi tre giorni prima. L’imolese Costa, allora quarantanovenne, aveva già fondato a Rimini il Partito socialista Rivoluzionario di Romagna; eletto alla Camera nel 1882, e divenuto così il primo parlamentare italiano di idee socialiste, in quel cruento maggio milanese fu uno degli animatori di prima fila della rivolta.  C’è qualche cosa di preveggente nel breve intervento sul ‘Carlino’ del socialista riformista compagno di Anna Kuliscioff. Qualche cosa che sembra toccare il punto cruciale del decennio, una visione che arriva fino a noi: da una parte l’esigenza e il diritto di manifestare per i propri giusti diritti, dall’altra l’invito a non incorrere nella violazione dell’ordine costituito, non foss’altro che per non concedere un’ulteriore arma di oppressione al nemico. Mandava dunque a dire Costa: «... nei centri industriali, là dove le grandi officine agglomerano gli operai a centinaia a migliaia, e le condizioni dei lavoratori italiani non differiscono gran fatto da quelle dei lavoratori inglesi, francesi od americani, la manifestazione del 1° maggio ha ogni ragion d’essere».

Poi, subito di seguito: «ed avrà certo efficacia grande, purché... non trascenda a violenze, non obblighi a scioperare chi non voglia o non possa, e non dia argomento a conflitti con la pubblica forza». Una linea di prudenza, diremmo guardando al sindacalismo attuale (o a ciò che ne resta), calato dentro a un’atmosfera ribollente. Poiché, sempre sullo stesso numero del ‘Carlino’, in una serie di quelle che in gergo giornalistico chiameremmo ‘brevi’, si legge che a Reggio Emilia polizia e prefettura hanno emanato disposizioni «draconiane» al punto che non si sarebbe potuto svolgere alcun raduno per quanto pacifico. Nel nostro paese il 1° Maggio, Festa del Lavoro, si incominciò a celebrare ufficialmente nel 1891, ma per tutti i dieci anni precedenti, negli Stati Uniti come in Europa, la necessità di affermare la presenza della classe operaia accanto alla nobiltà e alla borghesia dei possidenti monta come un tam tam sempre più acceso. Il 26 aprile del 1890, il giorno prima dell’intervento di Costa sul nostro giornale, il periodico ‘La rivendicazione’, che usciva a Forlì, scriveva: «Il primo maggio è come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d’ordine che si scambia tra quanti s’interessano al loro miglioramento».

Quali fossero le difficili condizioni dell’Italia di quello scorcio di secolo, che con lo scandalo della Banca Romana (1893, la lettura dei primi documenti alla Camera) e le fughe coloniali del Crispi (la disfatta di Adua è del 1896) pare correre già verso le sciagure della Grande Guerra e del fascismo, si comprende da svariati elementi. Fino al 1912 persistono, nella designazione degli aventi diritto al voto, i privilegi del censo (sia pure ridotto rispetto a prima) e del servizio militare. E sarà Giolitti a dichiarare: «Non dimentichiamo che non v’è paese al mondo, e sfido a smentirmi, in cui i consumi popolari siano gravati come in Italia; che non v’è paese in cui la disuguaglianza a danno dei poveri sia così stridente».

Lontana. lontanissima la classe dirigente dalla sostanza della questione sociale, e dalla constatazione di quanto la miseria e l’arretratezza operino lungo tutta la penisola, acquistando forza mano a mano che si scende verso il sud. Privi per la gran parte di una preparazione economica, provenienti in genere dai ceti avvocatizi, i ceti conservatori celebrano come una vittoria le cannonate di Bava Beccaris e arrivano persino a proporre, durante una riunione di proprietari terrieri palermitani, l’abolizione dell’istruzione elementare perché «guastava la testa». Il viatico verso il ’900 si avvelena, nonostante la ‘Rerum novarum’, in quell’Italia che non si parla e dove i vecchi e i giovani (leggere lo straordinario racconto di Pirandello) non riescono a entrare in contatto, a uscire dagli estremismi opposti, a guardare in faccia al nuovo, a selezionarne i rischi. E’ lecito sentire in tutto questo l’aria dell’Italia odierna?