Italia in prima pagina. Il divorzio diventa legge

L’impegno delle donne, una svolta per i diritti. La pagina del Carlino del 14 maggio 1974

Un momento di una manifestazione per il divorzio (Ansa)

Un momento di una manifestazione per il divorzio (Ansa)

Bologna, 25 ottobre 2015 - «Il 59 per cento dei no non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia; dimostra che i nuovi ceti medi hanno abbracciato i valori dell’ideologia edonista e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo italiano». Attribuireste, com’è in realtà, queste frasi a Pier Paolo Pasolini? La battaglia per il divorzio mescolò gli schemi ideologici. Si nutrì di slogan, di manifesti, di comizi sfrenati, infuocati. Il più virulento, il più aggressivo (il che, secondo molti, nocque alla causa antidivorzista), fu Fanfani, che nella lotta contro la legge Fortuna-Baslini vedeva la possibilità di divenire il dominus della Dc e avviare l’Italia al presidenzialismo. Caltanissetta, 12 aprile 1974: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto e dopo ancora il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà e scapperà con la serva». A Taranto: «Oggi, dopo una scappatella, i vostri mariti tornano a casa. Domani, con il divorzio, chissà». Sui manifesti, un bimbo e l’avviso ‘Pensa a tuo figlio. Contro il divorzio vota sì’. Non leggero il Pci. Aldo Tortorella: «I divorzisti sono servi dei padroni, decisi a ostacolare la politica dell’incontro e del dialogo con i cattolici». Loris Fortuna, dopo l’approvazione della legge nel ’70: «Una certezza ormai l’avevo. Non sarebbero state le donne a bocciarla». Da Oltretevere, Paolo VI, grandiosamente problematico e assolutamente ligio alla sacralità del matrimonio, dopo aver pensato, con il sostituto alla segreteria di stato monsignor Casaroli e il segretario della Cei monsignor Bartoletti, di lasciare libertà di coscienza, invitò i fedeli a tutelare i veri princìpi.

Influì, su queste spaccature, alleanze fatte e disfatte e risse infinite, il fatto che l’Italia arrivò al 1970 dopo ripetuti, inutili tentativi di darsi una legislazione sul divorzio? Certo che sì. Era il 1878 quando il patriota e onorevole Salvatore Morelli presentò il primo progetto impallinato a più riprese. Lo stesso accadde a un’ipotesi del governo Zanardelli, nel 1902. Vennero la Grande Guerra, il fascismo, la seconda guerra mondiale. Con Mussolini e i patti Lateranensi restò il divieto. Negli anni ’50, i socialisti Luigi Renato Sansone e Giuliana Nenni tentarono di far approvare il ‘piccolo divorzio’. Zero. E vennero Fortuna e il ’65. Da due anni il tribunale della Sacra Rota era il solo organo con facoltà di annullamento dei matrimoni. Non di scioglimento.

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FU una svolta della storia. Un rovesciamento radicale dei costumi. Un ridisegno dei rapporti familiari. Una secca torsione della relazione tra Stato e Chiesa, fra laicità e fede, fra nuove ragioni della politica e tradizioni consacrate da millenni. Il divorzio. Che in Francia e in Inghilterra vigeva già nell’Ottocento, che la Svizzera introdusse nel 1907 e che da noi arrivò solo nel 1970, al termine di uno scontro durissimo tra gli opposti schieramenti. Bisogna ripercorrerlo, per capire che cosa fu quella rivoluzione dei diritti e della legislazione su un tema così delicato. Anno 1965. Femminismo. Liberazione sessuale. Aria di un ’68 già imminente e di un autunno caldo pure. Avversione per i palazzi del potere e per tutto ciò che sa di conservazione. ‘Vogliamo tutto’, avrebbe poi intitolato un suo romanzo il poeta Nanni Balestrini. Cinquant’anni fa, dunque, un deputato socialista della provincia di Brescia, Loris Fortuna, presentò alla Camera – seguito dal liberale milanese Antonio Baslini – un progetto di legge per la ‘Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio’, vincendo gli inviti alla prudenza del suo leader Nenni. Una bomba. Cinque anni durò l’iter, zeppo di ostacoli, per l’approvazione. Sedute drammatiche in parlamento. Alle sei di mattina del primo dicembre, dopo un’accesa seduta notturna, il presidente della Camera Sandro Pertini comunicava l’esito della votazione: 319 sì (Pci, Psi, Pri, Pli) 286 contrari (Dc, Movimento sociale e Monarchici); 164 sì e 150 no in Senato. Nasceva la legge 898. L’Italia si allineava al resto del mondo.

E qui si innestano le figure dei protagonisti di una battaglia nella quale gli avversari della nuova legge non risparmiarono i colpi. Fra loro, soprattutto, il segretario della Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani, che portò il partito a un sconfitta da cui non si riprese mai più. L’approvazione del divorzio – e in sequenza arrivarono il nuovo diritto di famiglia e l’aborto – fu il primo, epocale avvenimento che sbriciolò il corpo democratico cristiano. Da allora in poi, lo Scudo crociato iniziò la sua mutazione. I cattolici in politica si sarebbero sempre più disseminati nei diversi partiti, non sotto uno stemma unico.

Fu un conflitto durissimo. La legge era ancora calda che già iniziava la raccolta di firme per il referendum abrogativo. Nacque il Comitato per il referendum sul divorzio presieduto dal giurista napoletano Gabrio Lombardi – che vedeva nel divorzio ‘un harem diluito nel tempo’, e composto dall’Azione Cattolica, da Comunione e Liberazione, dagli eredi dei comitati civici di Gedda, dall’intera conferenza episcopale. Le firme arrivarono in pochi mesi a oltre 1 milione e 300mila. Lo zoccolo duro su cui poggiare il referendum c’era, eccome, ma, secondo un tipico vizio italiano, bisognava che la politica lo accompagnasse.

Ed ecco scatenarsi le tattiche. E se si riuscisse a evitare il referendum? I sondaggi segnalavano una previsione del 50,3 di contrari all’abrogazione della legge e del 30,7 di favorevoli. Il cardinale arcivescovo di Firenze Giovanni Benelli, sostituto alla Segreteria di Stato vaticana, era l’anima dell’opposizione totale al divorzio. Si prova di bloccare il referendum. Da noi, le consultazioni popolari dirette non piacciono ai partiti. Gli anni tra il ’70 e il referendum sono il momento più opaco, quello degli incontri segreti, delle contrattazioni, dei tatticismi politicistici sotto banco. Si susseguono i tentativi di rinvio. Nilde Iotti, in parlamento, perora un miglioramento della legge del ’70. Democristiani e comunisti giocano entrambi contro il divorzio. Finché, con il democristiano Giovanni Leone presidente della Repubblica, il referendum viene indetto per il 12 e 13 maggio del 1974. Il martedì successivo, giorno 14, il ‘Carlino’ titola così a tutte colonne: «19 milioni al NO 13 milioni al SI’. Il divorzio non viene abrogato» (guarda la pagina). E nell’editoriale si legge: «Diciamo pure che non è la vittoria di alcun partito: è semplicemente l’affermazione della volontà ‘non politica’ degli italiani, che di ‘politicizzazioni’ne hanno abbastanza da tempo». Il paese più avanti dei partiti, fu un altro modo di giudicare quel risultato a valanga, che vide l’Emilia-Romagna, accanto alla Valle d’Aosta, al Piemonte e alla Liguria tra le regioni dove il no superò il 70% (rispetto a un’affluenza nazionale altissima, oltre l’87). Alla fine, i no all’abrogazione raggiunsero il 59,1%. Inaudito e imprevisto.

Ma come fu possibile che, in appena 40 mesi dall’approvazione della legge, la consultazione referendaria si risolvesse in un simile successo dei divorzisti, privi dell’appoggio – se non tardivo – della grande stampa e osteggiati dal blocco dei partiti di massa, Pci e Dc? Raccontava lo stesso Fortuna, animatore con Pannella, Mellini e gli altri radicali (Entrati poi in parlamento nel ’76): «Per evitare il totale isolamento presi contatto con l’amico Attilio Pandini, allora redattore-capo di ‘ABC’... il periodico sponsorizzò immediatamente l’iniziativa, e con una campagna martellante arrivò a centinaia di migliaia di copie a numero... L’effetto fu dirompente. Decine di migliaia di cartoline di adesione arrivarono da tutta Italia fornendo così nomi ed indirizzi per la successiva costituzione della potente Lega per il divorzio, Lid». E la cronaca esige che si ricordi come ‘ABC’ non fosse un settimanale intellettual-chic, ma una rivista largamente scandalistica, di generale orientamento socialista, vissuta dal 1960 al ’78. Non c’è da riflettere?

E poi accadde qualcos’altro di decisivo. A risultato appena ufficializzato, il pomeriggio del 13, mentre Fanfani si chiude nel suo studio di Palazzo Sturzo, all’Eur, e i divorzisti si preparano a una gran notte di festa laica in Piazza Navona, il Vaticano bolla i cattolici del no come colpevoli della disfatta. Come si chiamavano costoro? Prodi (Romano), Scoppola, Ardigò, Alberigo, Carniti, Zizola, Bassetti, Ceccanti. Continuatori dello spirito del Vaticano II e portatori di una questione cruciale e drammatica: il rapporto in politica tra autonomia dei fedeli e gerachie. Commentava Aldo Ajello, membro della direzione del Partito Socialista Italiano: «La Democrazia cristiana ha commesso l’errore solito d’inseguire una minoranza che l’ha impegnata in una crociata anacronistica, nel senso che la maggioranza ha dimostrato di essere moderna, di voler progredire». Frasi fin troppo trionfalistiche, forse. Ma è vero che lo scavalcamento dei partiti, laici inclusi, e della Cei, ci fu, e segnò la svolta con cui imboccava, fra mille titubanze e contraccolpi, la strada dei diritti individuali e civili, nel segno dell’accettazione (ripensiamo all’articolo 7 della Costituzione) delle posizioni dell’altro. Sosteneva Voltaire: «La tolleranza non ha mai provocato una guerra civile, l’intolleranza ha coperto la terra di massacri». Diritto alla conoscenza. Diritto alla dignità del malato. Diritti delle minoranze. Diritti di cittadinanza. Diritto alle proprie scelte sessuali e religiose. Diritto al cibo. Diritto a confrontarsi sulle profonde alterazioni della famiglia. Diritto al sapere. Diritti delle donne. Comunque la si pensi, quarantacinque anni fa cominciava a delinearsi l’orizzonte in cui si muovono in questi giorni, il parlamnento e il Sinodo, fra tesi e controtesi. Ovvio che la via, stretta stretta, passasse per l’ambito domestico, la base su cui nell’ormai lontano dopoguerra, si formò l’Italia.