Una testa da tagliare

L’ORRIBILE martirio del giovane Giulio Regeni in Egitto è stato paragonato all’arbitrario arresto dei marò Massimiliano Girone e Salvatore Latorre in India. Due diversi casi di abuso da affrontare agitando rappresaglie commerciali e sospendendo le relazioni diplomatiche. Ma il paragone non regge. Quando, esattamente quattro anni fa, sono stati sequestrati in Kerala, i due fucilieri di Marina vestivano una divisa e rappresentavano lo Stato italiano. Stato che, su impulso del premier Monti e del ministro Passera, li ha abbandonati per non compromettere gli affari in corso. Giulio Regeni non rappresentava lo Stato né obbediva a ordini. Era un giovane idealista, e come molti giovani idealisti dava un senso alla vita sfidando la morte. Non è detto fosse un ingenuo, di sicuro non era uno sciocco. Sapeva i rischi che correva nel fare propaganda contro il regime militare e golpista del generale egiziano al-Sisi. Rompere le relazioni con l’Egitto non lo riporterebbe in vita, così come la ventata primaverile araba che nel 2011 ha rovesciato Mubarak non ha fatto dell’Egitto un Paese migliore.

«OGGI è peggio di allora», ha detto la scrittrice egiziana Adhaf Soueif. E non c’è motivo per non crederle. Con la sola eccezione della Tunisia, l’idealismo delle primavere arabe ha prodotto mostri peggiori di quelli che voleva combattere. E con quei mostri oggi dobbiamo fare i conti. Si narra che, al racconto delle efferatezze compiute dal dittatore nicaraguense Anastasio Somoza, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt commentò: «È probabile che Somoza sia un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». A oggi, al-Sisi è il nostro figlio di puttana. L’Egitto non è mai stato, e forse mai sarà, un Paese democratico in senso liberale. Con l’eccezione della breve stagione del leader dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi, oggi in prigione in attesa di una condanna capitale, è sempre stato governato da militari che, con maggiore o minore intensità a seconda dei casi, hanno sempre affrontato il dissenso con un generoso uso della tortura e degli squadroni della morte.

OGGI al-Sisi è alleato dell’Occidente contro l’Isis. Un alleato precario, che, nonostante il pugno di ferro, fatica a controllare il Paese. Delegittimarlo significherebbe fare il gioco del nemico e creare le condizioni affinché, dopo Gheddafi, Assad e Mubarak, si debba rimpiangere anche lui. O perché al suo posto andrebbe un despota persino peggiore o perché anche l’Egitto verrebbe risucchiato dal fondamentalismo islamico. Vedremo con quali artifici si concluderà la pantomima egiziana e a quali teste rotolanti verrà imputata la morte del povero Regeni. Nell’attesa, però, il governo italiano farebbe bene a ‘convincere’ al-Sisi a recidere il cordone che lo unisce al generale libico Haftar. Forte della protezione egiziana, il capo militare di Tobruk è il principale responsabile del sostanziale fallimento della nascita, in Libia, di quel governo di unità nazionale a cui sta faticosamente lavorando l’Italia. Per la pace e gli equilibri internazionali, la testa di Haftar vale molto più di quella di qualche oscuro macellaio dei servizi di sicurezza egiziani. Farla rotolare sarebbe il modo migliore per dare un senso alla morte del giovane Giulio Regeni.