Ancona, 16 marzo 2012 - Il timbro caldo. Soffocato a colpi d'affanno. Soffiati sul microfono. Quello Rai. Così Paolo Frajese, ignaro cronista d'una pagina di storia, raccontò a Giovanni Ricci che il suo papà, l'appuntato Ricci Domenico, era stato crivellato di colpi dalle mitraglie assassine. Morto. Come un bambolotto di pezza. Lì, in via Mario Fani, il 16 marzo di più di trent'anni fa. Agli albori dell'affaire Moro, che si trascinò, esausto e tragico, per cinquantacinque giorni. E lui, undici anni, a saperlo così, da un tubo catodico che non consolava, ma narrava i fatti. A fotogrammi. Sbiaditi e spietati. Ieri era lì, in un cantuccio di provincia anconetana, a San Paolo, a ricordare il babbo. Quello della carezza la sera prima, quello degli alamari, quello del borsello dell'auto di Stato, quello che il mondo ti crolla addosso e non sai dove andare a sbattere la testa. Perché con lui vedi morire la mamma e tutti gli altri.
 

Giovanni Ricci, lo Stato vi ha dimenticato?
"A noi è stata molto vicina l'Arma. Lo Stato è presente. All'inizio ti è tantissimo vicino, poi l'interesse si va affievolendo coi ricordi. Oggi come oggi, grazie all'interesse dell'associazione delle vittime, c'è una legge che prevede l'assistenza ai superstiti. Mano a mano che il tempo è passato si è sviluppata una grande attenzione".
 

Del commando c'è chi è libero, chi scrive libri, chi ancora è dentro. E comunque c'è. Chi non c'è, invece, è suo padre.
"Sono d'accordo col presidente Napolitano: rimane la condanna morale dei terroristi. I loro comportamenti devono essere improntati al massimo rispetto. Dovrebbero impegnarsi nelle carceri giovanili. E lanciare messaggi ai ragazzi".
 

Chilometri di pellicole descrivono la morte dell'onorevole Moro. Della sua scorta. E del suo papà. Che ne pensa?
"Non hanno rappresentato in modo realistico la figura di mio padre. Nessuno ci ha interpellato. Pensi: in un film, mio padre era rappresentato coi baffi, che non aveva, e l'accento meridionale. Era marchigiano".
 

Sensazionalismo, condanna. O che altro?
"La morte non deve essere spettacolarizzata. Nei film si tende a creare situazioni in cui si tenta di dare un volto umano a chi ha ucciso delle persone".
 

Quanti anni aveva quando hanno sparato al suo papà?
"Undici".
 

Cosa prova sulla pelle?
"Mi ricordo l'immagine di mio papà all'interno dell'auto. Quel giorno ero a casa. Facevo la prima media. Saranno state le nove e mezza. Una telefonata di una amica avvertì mamma. Ho visto il babbo morto. In tv. Mi è crollato il mondo addosso".
 

L'ultima volta che suo padre l'ha accarezzata?
"Lui usciva presto. Mi ricordo che il giorno prima di via Fani aveva lavorato. Io avevo giocato una partita di calcetto. E avevo perso. Lui mi disse: "E' andata male, ma ti rifarai la prossima volta". Poi andò a dormire. Non l'ho rivisto più".
 

Di lui conserva qualcosa?
"Gli alamari. E il borsello, quello che aveva a via Fani. In quell'auto".
 

di Giorgio Guidelli