Ancona, 1 giugno 2012 - POKER E CORSE di cavalli, casinò e scommesse, ma soprattutto Gratta e vinci e slot machine. Sono questi ultimi due i principali indiziati di quella che nel nostro Paese, in appena qualche anno, è diventata una piaga di dimensioni abnormi. E Ancona e provincia non fanno differenza, anzi, tanto da spingere il Pdl regionale a proporre una legge perché chi è «ammalato di gioco» possa recuperarsi senza perdere il lavoro (vedere articolo a fianco).
 

RECUPERARSI, sì, proprio come dall’alcolismo o dalla droga. La sostanza, infatti, è solo il sintomo di un malessere profondo che trova la sua strada per sfociare in superficie chiamando in causa anestetici della coscienza e delle emozioni. «Le lucine colorate, la musica, il rumore delle monete tintinnanti — racconta Gianni, 40enne di Senigallia, ex funzionario di banca —. Tutto questo è fatto apposta per attrarre, intontire, anestetizzare, e farti spendere una fortuna». Gianni racconta la sua storia oggi che si è recuperato dal gioco compulsivo grazie ai Giocatori Anonimi, costola del più famoso Alcolisti Anonimi. Proprio come i «fratelli maggiori», i GA sono gruppi di auto - aiuto per riuscire a smettere di giocare. Come per AA, l’unica richiesta è il desiderio di smettere, e il primo passo verso uno stile di vita sobrio e lontano dall’umiliazione e dallo squallore delle vite rovinate da macchinette e Gratta e vinci è la capacità di riconoscere che a causa del gioco la propria vita è diventata ingovernabile. «Non avevo mai giocato prima, figuriamoci d’azzardo, al massimo qualche partita a scala 40 al mare, e neanche mi piaceva. Poi un giorno ho provato a infilare un paio di euro in una macchinetta.
 

È STATO L’INIZIO della fine. Ho perso il lavoro, mi sono strozzato con i debiti, sono arrivate in un attimo solitudine e disperazione. Poi, grazie a un amico, sono arrivato ai gruppi GA, e la mi avita è cambiata. Non gioco da due anni e mezzo e soprattutto aiuto le persone che come me cercano di uscire dall’incubo. Non è facile però — spiega — non solo ammettere una dipendenza, ma anche e soprattutto superare la vergogna di farsi aiutare». Se infatti il vero «macho» fuma, beve e gioca a carte, ecco che superare paure e stereotipi non è semplice. Eppure, soprattutto in epoca di cassa integrazione e disoccupazione, il gioco ha trovato terreno fertile per diventare ossessione, e poi malattia. Del resto soprattutto chi ha problemi economici cerca di risolverli «con una botta di fortuna», bombardato com’è da pubblicità che mostra giocatori vincenti circondati di belle donne e da centri scommesse che spuntano come funghi a ogni ancolo di strada. Ma non c’è niente di divertente a giocarsi lo stipendio ai videopoker: proprio di mercoledì la notizia di un operaio di Senigallia che ha simulato una rapina, pur di non raccontare a casa di aver perso tutto alle macchinette. «Fossero solo le rapine — racconta ancora Gianni —: c’è gente che inventa di tutto pur di trovare contanti e continuare a giocare. Dai finti incidenti d’auto, ai finti debiti, in tantissimi annegano nelle bugie, fino a quando un ufficiale giudiziario o una cartella di Equitalia non scopre gli altarini. Io ero capace di bruciare duemila euro al giorno». «Ho iniziato a giocare per ozio — racconta invece Leo, pensionato — in un bar dove si giocava a tresette. Vicino a me c’erano dei videopoker, e ho voluto provare: con mille lire in appena cinque minuti ne vinsi 250mila. Non li avessi mai vinti. Oggi sono salvo, grazie a GA».
 

GIOCATORI ANONIMI si fonda sul programma dei 12 passi, nato negli Usa negli anni ’30 dall’incontro tra un medico e un broker rovinato dal crollo della Borsa (non a caso). Parlando di loro stessi, e non dell’alcol, affrontando cioè la causa e non il sintomo, i due scoprirono che riuscivano a semttere di bere. Poi, proprio perché al centro di ogni dipendenza c’è la persona e non la sostanza, il programma è stato mutuato da AA per affrontare diverse situazioni. L’anonimato protegge chi è in difficoltà e rende il gruppo un luogo ideale dove si è tutti uguali: ci si chiama per nome, senza che un professore sia diverso da un operaio. E a sentire Gianni, funziona. 
 

di Eleonora Grossi