Coronavirus Ancona, l'infermiera "Trattata da appestata"

La denuncia: "Non mi hanno fatto entrare in banca perché lavoro con pazienti contagiati. E dire che ci chiamano angeli bianchi"

L’incontro simbolico di fronte delle forze dell’ordine con vigili del fuoco

L’incontro simbolico di fronte delle forze dell’ordine con vigili del fuoco

Ancona, 3 aprile 2020 - "Dicono che siamo angeli bianchi ma poi siamo trattati come appestati". Ha ancora la voce spezzata dal pianto l’infermiera jesina che ieri mattina si è vista chiudere in faccia le porte della banca per il suo lavoro all’ospedale Carlo Urbani, dove cura ed assiste pazienti positivi al coronavirus. Luisa, nome di fantasia scelto per tutelarne l’identità, è ancora sconvolta da quanto accaduto allo sportello di un istituto di credito della zona: "Ogni giorno in corsia noi operatori diamo il nostro massimo, affrontando turni estenuanti, al punto che spesso trascuriamo le nostre famiglie o le semplici faccende domestiche – è lo sfogo della donna – Ora io e i miei colleghi, per il lavoro che svolgiamo in ospedale, dovremmo anche accettare di essere trattati come untori?".

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Luisa, ci racconti come è andata... "Ieri mattina mi sono recata presto in banca per risolvere una questione burocratica. All’ingresso però è arrivato subito l’alt dal personale: offrendo assistenza a pazienti Covid-19 a me non è permesso entrare".

Come mai ha dovuto rivelare il suo mestiere? "Per accedere, avrei dovuto firmare un’autocertificazione in cui dichiaravo di non aver avuto contatti con malati di coronavirus. A quel punto, ho spiegato di non poter sottoscrivere nulla per la mia professione sanitaria. Sono stata onesta. Conosco bene i dispositivi di sicurezza per evitare il contagio e io stessa esco con guanti, mascherina e gel igienizzante. Insomma, non metterei mai a rischio la salute degli altri. Poi in ospedale lavoro in ambienti puliti, con presidi di protezione".

Ma non è bastato... "Il personale mi ha messo di fronte a una direttiva aziendale che tutti i dipendenti di filiale sono chiamati a rispettare. Quindi o firmavo o loro non avrebbero corso il rischio poi di ‘far ammalare qualcuno’".

E l’hanno cacciata? "Non mi hanno fatto entrare, consigliando di rivolgermi a un numero verde per sbrigare le operazioni".

Che cosa ha provato in quel momento? "Ero amareggiata e delusa. Mi hanno fatto sentire un’appestata perché svolgo con scienza, coscienza e competenza il mio lavoro di infermiera. Mi hanno impedito di entrare nella mia filiale solo per essere stata onesta, rifiutandomi di dichiarare il falso nei moduli di autocertificazione. Pezzi di carta che dubito possano servire in un momento simile".

Cioè? "Esistono persone contagiate che magari neanche sanno di esserlo; le stesse che potrebbero andare allo sportello e firmare l’autocertificazione perché ignare di aver contratto la malattia o di aver in casa un familiare con il virus. Se fossero valide queste misure, allora noi sanitari non potremmo neanche andare a fare la spesa".

Come è andata a finire? "Ho scritto una mail al direttore generale di Jesi che non ha tardato a rispondermi, ringraziandomi per avergli fatto prendere consapevolezza di un problema serio e che cercherà di risolvere. Dopotutto, il virus non si trasmette con lo sguardo e ci sono appositi dispositivi che si possono usare per tutelare il personale dipendente. Tutto il resto è psicosi".