"Noi, tre generazioni di Dylaniati"

Sergio Sparapani racconta come è nato il libro dedicato al mito del rock diventato anche Premio Nobel

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Il termine ‘dylaniati’ gira da molto tempo in Italia. Impossibile dire chi l’abbia usato per primo. In compenso quando compare state certi che c’è di mezzo qualcosa di interessante. Come questo "Dylaniati – Testimonianze di una passione", libro edito da Affinità elettive, che raccoglie una trentina di ‘voci’ appartenenti a tre generazioni. Compresa l’ultima, quella dei più giovani. Perché lui, Robert Allen Zimmerman da Duluth, Minnesota, ovvero Bob Dylan, contina a ‘dilaniare’ cuore e menti. Basterebbe solo la trilogia ‘Bringing it all back home’. Highway 61 revisited’ e ‘Blonde on Blonde’ (tra 1965 e 1966), il vertice della musica rock di tutti i tempi, per farne il più grande. ‘Simply the best’, come cantava anni fa Tina Turner.

Tra i ‘dylaniati’ c’è Sergio Sparapani, curatore del libro insieme a Emanuele Mochi e Massimo Papini. Guarda caso tre appassionati o professionisti di storia. Perché Dylan ha fatto la Storia. E’ storia. Lo dimostrano anche alcune delle tante foto che impreziosiscono il volume.

Sparapani, da dove nasce l’idea del libro?

"Da ua serie di eventi che si sono tenuti dalle nostre parti, come lo stage estivo dedicato a Bob Dylan e all’America degli anni sessanta, tenutosi nella Villa Mancinforte di Camerano nel 2012. O come l’evento organizzato a metà monte sul Conero nel 2016, per celebrare l’assegnazione del Premio Nobel. Allora venne un sacco di gente. E ci fu anche musica dal vivo. Sul Nobel però vennero spese troppe parole al vento".

Come sono stati scelti gli autori delle ‘testimonianze’?

"Da una serie di conoscenze comuni. Voglio sottolineare che sono rappresentate tre generazioni. La prima è quella dei più ‘anziani’, che negli anni ‘60 si legò al folk protestatario, e che poi riscoprirono l’artista più tardi. La seconda, alla quale anche io appartengo, scoprì Dylan negli anni Ottanta, un periodo in cui non fece grandi album, a parte ‘Infidels’ e ‘ O mercy’. Poi c’è la generazione dei giovani. Se i ragazzi continuano ad ascoltarlo c’è di che essere ottimisti".

Gli autori del libro sono tutti fan accaniti?

"No. Infatti non mancano le critiche. Tutti però riconoscono l’importanza di Dylan".

Fu molto criticata la svolta cristiana, con relativi dischi, non proprio memorabili...

"Si parlò di fondamentalismo cristiano. Ma Dylan ha molte facce. E’ un personaggio di enorme complessità".

Il suo disco preferito?

"Direi ‘O mercy’, la mia prima volta con Dylan, negli anni Ottanta. Tutti gli autori raccontano la loro prima volta. Da Franco Fabbri, ex Stormy Six, al cantautore Massimo Priviero, dal critico letterario Massimo Raffaelli a Renato Moro, nipote di Aldo Moro, professore di storia contemporanea all’Università Roma Tre".

E l’ultima?

"Dylan è sempre attuale. Nelle sue canzoni più recenti c’è qualcosa di profetico, quasi il racconto di una mezza apocalisse. Come ‘I Contain Multitudes’, o ’Rough and rowdy ways’".

Quando verrà presentato il libro?

"Sabato 26, nell’ambito del Festival di Storia, che avrà come tema le ribellioni. Va detto che l’input del libro è venuto da Massimo Papini".

Raimondo Montesi