"Sapeva dell’infezione, l’ha nascosta e ha causato la morte di Giovanna"

Le motivazioni della sentenza di condanna definitiva di Claudio Pinti: "Se non fosse stata contagiata dall’Hiv, la donna non avrebbe contratto il linfoma che la uccise. Il nesso causale non si è mai interrotto"

Migration

di Marina Verdenelli

Sapeva di essere infetto, sapeva di contagiare e l’influenza adottata sulla compagna Giovanna Gorini, poi deceduta, a non curarsi con le terapie antiretrovirali non possono non essere paragonate ad un omicidio volontario di cui è stato accusato. Il nesso casuale considerato dai giudici di secondo grado, tra le condotte adottate dall’imputato e la morte della donna da cui ha avuto poi anche una bambina, è stato ritenuto "corretto". A cinque mesi dalla conferma della condanna di Claudio Pinti anche dalla Corte di Cassazione, sono uscite le motivazioni della sentenza emessa il 15 dicembre scorso e con cui i giudici di terzo grado avevano rigettato il ricorso del 38enne di Montecarotto accusato di aver contagiato con l’Hiv la sua ex compagna Gorini e poi la fidanzata Romina Scaloni. Il punto cruciale del ricorso, presentato dalla difesa dell’imputato rappresentata dall’avvocato Massimo Rao Camemi, puntava a dedurre una violazione della legge penale con riferimento alla qualificazione del reato di omicidio volontario attribuito al Pinti per la morte di Giovanna anziché come omicidio colposo. "L’infezione Hiv, inguaribile e potenzialmente letale se non trattata – motiva la Cassazione – conseguì ai rapporti sessuali non protetti. La morte della Gorini fu quindi conseguenza di tali rapporti sessuali che produssero l’infezione che, a sua volta, determinò l’insorgere di una patologia Aids definente, risultata letale. Il nesso di casualità tra rapporti sessuali non protetti e la morte della Gorini è oggettivo. C’era un obbligo per Pinti di impedire l’evento informando la partner della propria sieropositività". Per la suprema corte se Giovanna "non fosse stata infettata dal virus dell’Hiv non avrebbe contratto il linfoma che ne provocò la morte (il 24 giugno del 2017, ndr)". Il rifiuto delle terapie da parte della Gorini, se indotte per la pressione di Pinti o meno (comunque l’imputato le sollecitò le interruzioni alle terapie antiretrovirali e chemioterapiche, sostiene la suprema corte), "non interrompe il nesso casuale – scrive la Cassazione – tra la condotta di Pinti che aveva provocato l’infezione da Hiv alla Gorini e la morte della donna". Per la Cassazione si deve "escludere che il rifiuto delle terapie sia causa da sola a determinare la morte". La stessa Corte di Cassazione precisa come "la spregiudicatezza dell’imputato già emergeva all’epoca dei rapporti con la Gorini, atteso che, come si è visto, egli era consapevole di aver già trasmesso l’infezione ad altre due donne". La difesa di Pinti, rispettando la decisione dei giudici, si dice delusa "dalle argomentazioni date anche in diritto" osserva l’avvocato Camemi. "Comunque per loro fu un contagio volontario – aggiunge il legale – omettendo di essere malato ma dove è provato che alla Gorini non lo aveva detto?". Assieme al suo assistito, recluso ancora nel carcere di Rebibbia, valuterà il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.