Da Ancona al Bangladesh, parla l'infermiera che lavora per Medici senza frontiere

La testimonianza di Cristina Turbanti: "Quanta rabbia e quanta ingiustizia nei campi profughi"

Cristina Turbanti, 27 anni, infermiera di Polverigi, lavora per Medici Senza Frontiere

Cristina Turbanti, 27 anni, infermiera di Polverigi, lavora per Medici Senza Frontiere

Ancona, 26 aprile 2018 - «Appena arrivata, pensavo che non ce l’avremmo mai fatta, ero scoraggiata. E quando mi è stato chiesto di descrivere un’emozione, con una storia, ho pensato alla rabbia. Ma poi tutto questo si supera, e la soddisfazione che si prova nel campo è enorme». Sono sensazioni forti quelle che descrive Cristina Turbanti, 27 anni, un’infermiera di Polverigi appena tornata dalla sua prima esperienza con Medici senza frontiere in Bangladesh, e in procinto di partire per la seconda missione, in Sierra Leone. Una scelta di vita forte, «ma è quello che ho sempre voluto fare».

Cristina Turbanti, 27 anni, infermiera di Polverigi, lavora per Medici Senza Frontiere
Cristina Turbanti, 27 anni, infermiera di Polverigi, lavora per Medici Senza Frontiere

L’associazione l’ha contattata e le hanno fatto un primo contratto: da dicembre a fine febbraio in Bangladesh, nei campi profughi dove hanno trovato riparo oltre 700mila rifugiati Rohingya, in fuga dalle violenze che subiscono in Myanmar. «C’era stata un’epidemia di difterite e bisognava allestire da zero un ospedale da campo. Appena arrivati, eravamo pochi e non c’era nulla. Ho pensato che non ce l’avremmo mai fatta, è stata durissima. Poi sono arrivati altri a darci una mano, chi aveva più esperienza di me mi ha aiutata a superare questa difficoltà, e c’era tanto da fare. Alla fine avevamo l’ospedale, molti tendoni di plastica con duecento posti per i pazienti meno gravi, e trenta per quelli più gravi. All’inizio c’erano anche più di cento ammissioni al giorno. Venivano persone di tutte le età, ma soprattutto bambini, che sono più vulnerabili, e ragazze».

Con i pazienti, racconta Cristina, si parla e si crea un legame. «Soprattutto durante il turno di notte, aiutati da un interprete ascoltavamo le loro storie. C’era chi aveva viaggiato per 15 giorni a piedi, tenendo i bambini in braccio, attraversando i fiumi, per cercare assistenza. Molti avevano familiari che erano stati uccisi in Myanmar, altri erano straziati perché i parenti erano ancora là».

Quando Msf ha chiesto a Cristina di descrivere un’emozione, per la campagna #Umani, lei ha scelto la rabbia e ha raccontato la storia di Asma. «Era rifugiata in Bangladesh da mesi, costretta a trascorrere la propria infanzia in un campo profughi, lontana da quello che un bambino della sua età si meriterebbe di avere: giochi, una famiglia unita, amici. Oltre a questo, aveva contratto la difterite con una gravissima complicanza cardiaca, la miocardia, curabile solo con un pacemaker. Provavo rabbia. La rabbia di dover guardare negli occhi un padre che stringe fra le braccia la sua bambina, sapendo quanto ingiusto sia stato il suo destino, la rabbia di dover accettare le condizioni di un popolo che non ha nessuna colpa se non quella di credere in qualcosa». La piccola era arrivata all’ospedale di Msf in crisi respiratoria e con un battito cardiaco di 20 pulsazioni al minuto (la normale frequenza in un bambino di quattro anni è fra 80 e 120 battiti al minuto). «Le è stato subito somministrato il farmaco per contrastare la tossina difterica e altri per il cuore, ma purtroppo le condizioni non sono migliorate. La sua prima notte in ospedale era stabile. Durante la notte Asma ha iniziato a piangere forte. Il padre ci ha spiegato che voleva una tazza di acqua calda. Abbiamo capito che l’unica cosa da fare era procuragliela, cosa non facile in un contesto del genere, circondati dal nulla e senza una cucina a disposizione. Alla fine, grazie a uno dei guardiani del campo, siamo riusciti a dare una tazza di thé caldo alla bambina. Abbiamo esaudito questo suo piccolo desiderio. Poche ore più tardi, Asma è morta tra le braccia del padre. L’ingiustizia che scatena storie come questa non può non provocare tanta rabbia».

Eppure Cristina è pronta a ripartire: il 14 maggio andrà ancora con Msf, questa volta in Sierra Leone. «Sono esperienze che provano fisicamente e psicologicamente, ma lavorare con Msf è una cosa che ho voluto da sempre, ci credo tantissimo, ne condivido del tutto i valori. Certo, è anche un sacrificio, ma mi aiuta la soddisfazione che si prova con questo lavoro, e soprattutto avere un bellissimo ambiente a casa: la famiglia e gli amici mi supportano e questo significa molto per me».