Davide Valacchi ora torna a casa. "E' stato un viaggio stupendo"

Dopo 9 mesi di viaggio,l’ascolano ha donato il tandem ‘Baghera’ a un ragazzo non vedente del Tagikistan. In testa ha già la prossima avventura

Il momento della consegna del tandem

Il momento della consegna del tandem

Ascoli, 24 ottobre 2019 - "D'una non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda". Lo scriveva Italo Calvino nel romanzo ‘Le città invisibili’, dando voce all’esploratore veneziano Marco Polo che, interrogato dall’imperatore Kublai Khan sul lungo viaggio compiuto nell’estremo oriente, si lascia andare a racconti immaginifici, dove i luoghi visitati non coincidono più con mere descrizioni di realtà esteriori.

Sono i luoghi vissuti, sentiti sulla pelle e visibili solo nella mente di chi racconta. Perché, inevitabilmente, ogni viaggiatore incontra la sua città, la sente, la assapora e in qualche modo la crea. E sono tante le ‘città invisibili’ esplorate da Davide Valacchi, non vedente dall’età di 9 anni e in viaggio da quasi 9 mesi.

E’ partito l’8 marzo da Roma con l’amico Michele Giuliano, pedalando in sella a un tandem fino a Teheran, dove al gruppo si è aggiunto anche l’amico Samuele Spriano. Insieme, avrebbero dovuto raggiungere la lontana Cina, ma un improvviso cambio di percorso ha offerto un nuovo significato al progetto ‘I to eye’, nato per dimostrare che la disabilità non è un limite, ma un’opportunità.

I confini della Cina, infatti, sono rimasti chiusi e nessun visto è stato concesso ai giovani viaggiatori, che hanno così deciso di donarlo a Siyovush, un ragazzo non vedente del Tagikistan. Baghera (questo il nome del tandem) continuerà così a regalare sogni a chi, come loro, ha sete di percorrere strade inesplorate, in cerca di una meta che ha tanti nomi: identità, autonomia, integrazione, libertà. Questi sono in fondo i messaggi che Davide e suoi amici hanno voluto lanciare, spingendosi laddove la disabilità, non ancora accettata né compresa, è vista come un ostacolo che allontana, isola e separa, costruendo barriere tra il mondo del visibile e quello che invece si trova oltre, al di là dell’aspetto esteriore delle cose. Un mondo attraverso il quale Davide ci ha guidati chilometro dopo chilometro, in qualche modo aprendoci gli occhi. «I limiti sono solo nella nostra mente», aveva detto prima di partire. E adesso sta per tornare, in qualche modo cambiato, ma sempre più desideroso di cambiare le cose, in meglio. «Tra pochissimo, saremo in Italia – racconta –, abbiamo il volo da Samarcanda domani. Adesso è il momento della riflessione e del riposo, ma sto già pianificando il prossimo viaggio. Perché il progetto ‘I to eye’ non finirà qui. Farò altri viaggi, magari più brevi, per donare altri tandem. Devo soltanto scegliere i posti giusti, dove c’è veramente bisogno e dove potrò portare un bel messaggio». Non manca un pizzico di nostalgia nella sue parole: «Non è stato facile separarsi da Baghera – dice Davide – rimessa praticamente a nuovo per l’occasione, ma il pensiero di averla lasciata nel magico Tagikistan e nelle mani di persone che sapranno sfruttarne le grandi potenzialità ci ricorda che il primo grande obiettivo del progetto ‘I to Eye’ è stato finalmente raggiunto».

 

Davide, quando avete donato il Tandem?  «Il 18 ottobre. È stata proprio una bella giornata e sono convinto che abbiamo scelto la persona giusta». Come mai avete scelto di donarlo a Siyovush?  «Ci siamo capiti al volo, come se ci fossimo guardati negli occhi... Insegna inglese in una scuola speciale di Dushanbe e cura moltissimi corsi di autonomia. E’ convinto che solo questa possa offrire una vita migliore e maggiori opportunità, cosa già difficile tra i non vedenti italiani (solo una metà di loro riesce ad essere realmente autonomo). Donare il tandem a lui, vera celebrità tra i disabili visivi del posto, è il modo migliore per far conoscere questo straordinario mezzo di trasporto a più persone possibili in questa parte del mondo. Inoltre, lui era già interessato a comprarlo, ma non se lo poteva permettere».  Come mai proprio il Tagikistan?  «È il paese più povero tra quelli dove siamo passati e, in generale, il più povero dell’Asia centrale. Eppure qui regnano l’immensa ospitalità, la solidarietà e l’onestà vera, ma anche un’apertura mentale insolita, superiore a quella di tanti altri paesi con più opportunità. Un territorio bellissimo ma aspro e inaccessibile, abitato da un popolo che rappresenta la purezza e la forza della sua natura. I cinesi non ci hanno concesso il visto e così e ho subito pensato di tornare lì, nel paese che più mi ha colpito». Quali sono stati i momenti più significativi del viaggio?  «Credo che tra i momenti più belli del viaggio ci sia la preparazione. La vedo un po’ come il ‘Sabato del villaggio’: è quasi più bella l’attesa che il viaggio in sé. I primi giorni, infatti, sono stati qualcosa di mistico. Poi è come se fossi partito tre volte, da Bologna, da Roma e da Ascoli. In Italia non abbiamo mai pedalato soli. E’ stata una vera e propria staffetta di persone che ci hanno accompagnato al confine. Il secondo momento significativo è stato il passaggio dal deserto dell’Asia centrale al Pamir. Il deserto è affascinante, ma dopo 2 mesi di caldo infernale e lande desolate non ne potevamo più. Di momenti ce ne sarebbero tanti altri: sicuramente non dimenticherò uno degli ultimi, quando ho capito che non potevamo andare in Cina e ho avuto una sorta di illuminazione, capendo che non era quello il posto giusto». Tornando indietro, cambieresti itinerario?  «Assolutamente no, perché non esiste un viaggio che può andare male. Ogni evento, anche quelli meno belli, hanno determinato una sequenza di altri eventi impossibili da dimenticare. Anzi, spesso sono gli imprevisti, le cose andate storte, che ti fanno incontrare le persone che davvero ti segnano».  Questo viaggio, in qualche modo, ti ha cambiato?  «Certo. Mi ha dato la conferma che lo status di viaggiatore è il modo migliore per conoscere le culture. Ho conosciuto popoli lontani dalla modernità, che vivono in quella che noi definiamo povertà, ma che è solo uno stile di vita più essenziale e vicino alle cose che davvero contano. Quelli che ci sono stati più vicini, che ci hanno dato di più, sono quelli che noi definiamo i più poveri. Adesso, tornando indietro e riavvicinandomi poco a poco alla nostra realtà, sento sempre di più la vuotezza e l’inutilità di certi comfort».