Terremoto, da Ascoli Piceno al lago di Pilato. Così ha cambiato la natura

Piero Farabollini, docente dell’univesità di Camerino, preziosa guida nel viaggio del Carlino a un anno dal sisma. "Vi svelo le cicatrici"

Il geologo Piero Farabollini, durante il viaggio del Carlino

Il geologo Piero Farabollini, durante il viaggio del Carlino

Ascoli, 3 ottobre 2017 - “La montagna nasce, cresce, vive e, come ognuno di noi, porta su di sé i segni del tempo e delle esperienze vissute”. Il professor Piero Farabollini, docente dell’università di Camerino, neo presidente dell’ordine dei geologi per le Marche e preziosa guida nel viaggio del Carlino verso il lago di Pilato a un anno dal sisma, sceglie l’approccio filosofico. “Il Vettore – prosegue mentre infila le pedule con la naturalezza di chi indossa i guanti da lavoro prima di iniziare il proprio turno – arriva da un periodo intenso e ora ne vedremo le prove" (VIDEO).

L’escursione inizia a Forca di Presta, provincia di Ascoli, a due passi dal confine con l’Umbria, a quota 1.540: qui si trova quello che può essere definito l’ingresso principale del monte, cima regina dell’Appennino umbro- marchigiano (ben 2.476 metri) e massiccio sotto cui si nasconde la faglia che ha dato origine agli eventi sismici. “Non chiamatela faglia assassina – precisa Farabollini mentre il parcheggio alle sue spalle si fa sempre più piccolo –. La sua presenza e i conseguenti rischi per l’uomo sono noti da sempre, solo che della geologia ci si ricorda esclusivamente in tempo di guerra, mentre per evitare le tragedie occorrerebbe tenerne conto anche in tempo di pace, anzi soprattutto in tempo di pace”.

“Pochi giorni fa – continua – un dirigente nazionale dell’Anas, nel commentare i cedimenti al traforo di Norcia, mi ha detto: ‘La sfortuna ha voluto che la faglia tagliasse ortogonalmente la galleria’. Ecco, questo rende l’idea dell’approccio che si ha: si ragiona al contrario”.

Il cammino prosegue. ‘La montagna insegna il silenzio e disabitua dalle chiacchiere’ scrisse Julius Evola e in effetti l’ascesa del primo tratto, piuttosto ripido, in breve toglie anche ai più loquaci la voglia di parlare. A metà percorso la salita si fa più dolce: sulla destra, in fondo alla valle, si riconoscono i paesi portati dal terremoto alla ribalta mondiale. Arquata, Pretare, Piedilama e Spelonga sembrano le stesse di sempre, ma dentro quelle case, che in realtà sono macerie e monconi difficili da riconoscere a 4 chilometri di distanza, non c’è più nessuno.

“Quello è il monte Vettoretto” riprende la sua spiegazione Farabollini indicando una sorta di ‘colle’, in direzione della vetta, attraversato da una fessura. “È evidente una ‘frattura cosismica’, che si è generata a seguito dello scuotimento. Ce ne sono molte in zona e andrebbero annotate al più presto, almeno quelle che si trovano in prossimità di infrastrutture o, peggio, centri abitati: l’erosione in poco tempo ne cancellerà i segni, ma in profondità la spaccatura resterà tale, con tutti i rischi di instabilità del caso”.

Si riparte verso il rifugio Zilioli, da dove si può scegliere se proseguire verso la vetta o scendere al lago di Pilato. Farabollini si ferma:“Quell’abbeveratoio – dice indicando una sorta di fontanile di pietra distante un centinaio di metri, a valle – dopo il sisma è rimasto a secco: probabilmente lo scuotimento ha modificato la circolazione idrica di profondità”. L’ultimo tratto prima del rifugio è ricoperto dalla prima neve, che raggiunge lo spessore di un palmo. Si scivola e la salita è più faticosa del previsto. La casupola, a quota 2.250, è inagibile. “Le crepe sono nette – riprende –. Le più gravi non sono quelle che seguono l’andamento delle pietre, ma le più sottili che attraversano i blocchi e che, in sostanza, li hanno spaccati”.

La sosta è breve, si riparte. La neve ha coperto il sentiero ma chi qui è di casa sa bene dove passare. Lo scenario, dopo un breve tratto in discesa, è lunare: una maestosa parete di roccia sulla sinistra, una profonda valle formata da detriti piccoli e grandi al centro e, sulla destra, il versante del Vettore che conduce alla vetta. All’orizzonte, le cime dei Sibillini. “La scossa qui ha dato un impulso netto alle colate detritiche già esistenti. Il materiale che continua tutt’ora a finire a valle ha portato a una lieve modificazione dei bordi dei due bacini, i quali come noto hanno una forma ‘a occhiali’, e a un innalzamento, in alcuni punti anche di un metro, del fondo. Si tratta di centinaia di metri cubi di roccia ma, sia chiaro, il lago di Pilato e il chirocefalo che lo abita non sono in pericolo. Con le precipitazioni invernali tornerà a riempirsi: il fatto che si sia seccato è dovuto alla siccità”.

Dopo un ultimo sguardo a questo spettacolo si riprende il cammino. La breve discesa percorsa nell’ultimo tratto dell’andata ora appare un’insormontabile parete innevata. Si torna allo Zilioli e, da lì, si riprende la via di casa. “Pensare che questo sia il mostro che ha divorato quasi 300 vite è un inganno – conclude Farabollini –. Le cicatrici del sisma le porta su di sé anche il Vettore. Sono i segni della terra che vive e con cui, dopo qualche milione di anni che siamo qui, non abbiamo ancora imparato a convivere”.