DA FALCAO A... BUCCHI

Così lo chiamavano a Valmir di Petritoli. Le anime del mister

Migration

Una storia di pesche e pomodori. Di trattori. E di Fiat 127 nuove fiammanti. Di un incrocio che prima era regolato da classici "stop", poi da semafori che il tempo ha reso obsoleti di fronte all’utilità e alla modernità di una più funzionale rotatoria. E soprattutto, è la storia di Cristian Bucchi. Del nuovo allenatore bianconero che arriva, pardon torna, in una casa che può considerare "sua" nonostante in realtà non sia mai realmente transitato al Del Duca come indigeno. E’ nato a Roma ed è di Grottammare, questo è marchiato sulla carta e nella memoria di tutti. Ma la storia di Cristian Bucchi si colora proprio di quel posto che vi abbiamo descritto sopra, spostando le lancette dell’orologio qualche anno indietro. Quando l’Italia era in festa per il Mundial portato a casa contro ogni sorta di pronostico e cospirazione. E’ l’estate in cui i bambini possono ancora scorrazzare con sogni ed idee anche lontano da casa. Perché qualcuno a prendersi cura di loro, mentre giocano, si trova sempre. Ed è fidato.

Valmir di Petritoli. Piena Valle dell’Aso. Un vero polmone della tifoseria del Picchio. E’ lì che il nuovo allenatore bianconero (certo che associare la parola "nuovo" a Bucchi ci regala un po’ di sana ilarità, e non abbiamo avuto remore nel farglielo presente, ndr) muove i primi passi, proveniente dalla capitale, da ometto marchigiano. Spola tra Valmir, dove vive con la famiglia e va a scuola fino alla quinta elementare, e Rubbianello, dove ha amici e legami che qualsiasi bimbo della sua età merita e desidera di avere. Con la consueta etichetta. Perché ieri, oggi, sempre, tutti i bambini ricevono un’etichetta che li accompagnerà per il resto della vita e che soprattutto, specie quando ti capita una vita come quella di Cristian, ti aiutano a capire chi era lì con te quando "non eri nessuno". Tenetevi forte, perché quello che per voi, oggi, è l’allenatore chiamato a lanciare un Ascoli già abbastanza lanciato nelle ultime due stagioni, e che nell’album dei ricordi di ogni tifoso bianconero è uno degli attaccanti più calienti della storia recente del calcio Piceno, aveva un soprannome incredibilmente affascinante. Falcao. Se incontrate un quarantacinquenne di Rubbianello o Valmir e gli chiedete se conosce Cristian Bucchi, vi risponderà. "Chi, Falcao?". Già, da Roma, in Valdaso, nei primi anni ’80, era arrivato l’ "ottavo Re". Perché è facile capirlo: per la chioma, folta e riccioluta, tale e quale a quella del volante verdeoro-giallorosso.

E proprio perché probabilmente, quell’accento che oggi è tutt’altro che capitolino, allora era chiaramente decifrabile assieme a quella smodata passione proprio per i colori della Lupa. Una squadra campione d’Italia, con una bandiera che forgiava lo scudetto, che "Falcao" esibiva insieme ai suoi amici (tra cui, per lo stesso cocktail di fede calcistica e chioma, c’era anche – e c’è ancora oggi – un "Pircher") alle 127 strombazzanti e ai trattori che macinavano chilometri per trasportare quella frutta di cui il territorio che vi abbiamo descritto era straripante. E’ un po’ un destino, quello di Cristian Bucchi, che ci piace definire "antropologico". Perché se è vero che cuore e cervello della fede ascolana risiedono sotto ed intorno alle Cento Torri, è altrettanto vero che tutti gli altri organi vitali siano collegati da provenienze variegate e non sempre geograficamente comprensibili.

In Bucchi ce ne sono molte: c’è l’anima del marchigiano arrivato da Roma, c’è quella del tifoso della Riviera delle Palme che a volte deve far fronte alla normale quanto storica rivalità sportiva, c’è quella del calciatore che ha iniziato a muovere veri passi nell’entroterra maceratese.

Volete l’ultimo legame col territorio? Nonna Teresa, 93 anni, sempre a Valmir, che lo chiama ogni giorno per dirgli di passare a prendere i pomodori appena raccolti nell’orto. Tutti per Falcao dal territorio della Valdaso. Una terra bianconera...

Daniele Perticari