Bollani a Bologna con Valdes. "Il jazz è libertà"

Concerto all’EuropAuditorium per il Bologna Jazz Festival. "Abbiamo una scaletta da declinare in modo diverso sera per sera"

Stefano Bollani e Chucho Valdés

Stefano Bollani e Chucho Valdés

Bologna, 1 novembre 2019 - La musica è dentro di noi ed è di tutti, è un bene comune perché fonda la coscienza della persona per preservarne il sentimento e l’identità. Concetti addensati nella rêverie personale di Stefano Bollani con tinte che vagamente rammentano un’allegra arlecchinata da rispolverare Piano a Piano con Chucho Valdés venerdì 1 novemrbe all’ EuropAuditorium dalle 21. Tappa del Bologna Jazz Festival in cui i due titani del jazz/non jazz mostrano d’aver affinato un’intesa che sfiora l’incantesimo. In una sarabanda di motivi accennati, proseguiti e sviluppati, appunto, piano a piano, melodie e rotture di suoni che t’immergono nelle galassie del non sentito. Venendone ricambiati con l’energia che si spande dalla platea.

Bollani, com’è nato questo binomio da mille e una notte? «Quando invitai Chucho a L’importante è avere un piano , un programma che ho condotto nel 2016 in seconda serata su RaiUno, facemmo assieme un pezzo così bello e facile da far scattare la scintilla. Da allora capimmo di essere anime gemelle. Poi fui invitato da lui a Cuba e ricambiai l’invito chiamandolo a Roma alle Terme di Caracalla. Quest’anno facciamo un tour in Italia, toccando anche Zurigo, ma dobbiamo incrociare le agende. In passato tutte le volte che c’incontravamo ci scambiavamo i bigliettini per salutarci, senza mai pensare di suonare insieme».

Chissà che meraviglie dovremo aspettarci dall’ interplay tra anime istrioniche piegate sui tasti. Anticipazioni? «Nessuna! Bisognerebbe andare ai concerti senza aspettarsi niente, abbiamo solo una scaletta da declinare in modo diverso sera per sera, di pièce italiane, cubane, qualche standard americano e pezzi nostri».

Che cosa le trasmette il maestro Chucho che per il distacco un po’ ieratico ricorda Aaron Copland? «Col volto e col corpo mi comunica tantissimo, mi piace guardarlo mentre crea accordi e melodie esilaranti. Sono felice di suonare assieme a uno dei pianisti che ascolto da bambino. Un confronto da cui imparo ogni volta qualcosa».

Al jazz è consentito di andare oltre i limiti della riscrittura? «Il jazz è libertà, la musica è di tutti, se suono Bésame Mucho me ne approprio. Quando improvvisiamo su un brano di qualcuno siamo in comunicazione diretta con l’autore. Che sia Ravel, Velázquez o Hendrix, è un dialogo tra me e Chucho. Poi ci sono quei grandi spiriti e poi il pubblico».

Ammette, dunque, d’avere un buon rapporto con i classici. «Ci frequentiamo a casa mia e ogni tanto anche dal vivo: ho suonato Mozart al San Carlo con Zubin Mehta e penso di rifarlo l’anno prossimo a ottobre. In settembre lo ripropongo al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. E un’altra data ci sarà anche a Bologna».

I musicisti che improvvisano possono paragonarsi ai bambini che iniziano a giocare senza pensare a quello che succederà dopo? «Ottima metafora, dovrebbe essere così anche in età adulta, nella vita dovremmo essere concentrati nel presente, altrimenti come facciamo a godercela?».

Il pubblico può decidere il risultato della serata? «In misura rilevante. Noi suoniamo per chi ci ascolta, il nostro apporto cambia a seconda del consenso».

L’idea prevalente che la Grande Mela ha del jazz italiano? «Andrebbe chiesto alla… Grande Mela. Le nuove generazioni di jazzisti americani non hanno problemi di razzismo culturale. I problemi geografici contano poco all’interno del jazz».

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