Ada Montellanico, signora del jazz, a Bologna

L’artista mercoledì sera alla Cantina Bentivoglio con Giovanni Falzone

Ada Montellanico

Ada Montellanico

Bologna, 10 aprile 2018 - ‘La strada di Abbey’ è quella che virtualmente sta percorrendo: liriche appassionate, suoni metafisici per un’eroina dei diritti civili a ridosso dei Sixties: la griffe di ‘Abbey’s Road’ (Incipit Record, 2017) è quella di Ada Montellanico, la più raffinata interprete del canto jazz in Italia, presidente del Midj, cui aderiscono i jazzisti italiani. Omaggio ad Abbey, nome d’arte di Anna Marie Wooldridge –, figura da leggenda non solo in ambito musicale ma per l’intero movimento Black Power –, che la leader propone in quintetto mercoledì alle 22 in Cantina Bentivoglio con la guest star Giovanni Falzone (tromba). Gli altri sono Filippo Vignato (trombone), Matteo Bortone (contrabbasso) ed Ermanno Baron (batteria).

Ada, ci racconti la sua storia.

«Mi sono avvicinata al pentagramma come studiosa di etnomusicologia e cantante percussionista di musica popolare, poi c’è stata la folgorazione per Coltrane. Così passai dal tamburello al sax soprano. Dopo un’esperienza con Jimmy Cobb, con cui ho fatto due tournée e un disco ho incontrato Piangerelli che mi propose di fare il secondo album su Luigi Tenco, ‘L’altro Tenco’, realizzato con Rava e il mio quartetto. ll primo l’aveva fatto Tiziana Ghiglioni».

Un’operazione rischiosa…

«Per cui sono considerata l’iniziatrice del canto jazz in italiano. Argomento cui ho dedicato due album e un libro. Riscoprire il patrimonio della canzone italiana in chiave jazzistica e non jazzata era qualcosa non così scontata».

Dopo Billie Holiday (Blues for Lady Day) ha voluto omaggiare Abbey Lincoln. Il motivo di queste scelte?

«Si tratta di donne meravigliosamente umane. La prima intonò ‘Strange Fruit’ contro guerra e schiavismo, nel repertorio sterminato di Abbey c’è un

cammeo che dà i brividi, ‘We Insist!’, legato al tema del razzismo. Sono stata la prima ad omaggiarla in Italia e una delle poche nel mondo».

Abbey Lincoln, a un certo punto della sua vita artistica ha voluto esplorare altre vie. Ha sentito anche lei questa esigenza?

«L’ho avvertita assumendo per un quadriennio la carica di presidente del Midj. Impegno giunto al secondo mandato, che scade mercoledì. Abbiamo

fatto un lavoro egregio. Fondamentale è andare avanti».

Com’è nata la collaborazione con Falzone?

«Ci siamo conosciuti nel 2010, scambiandoci i dischi. Ci unisce un grandioso rapporto con il lirismo, la melodia. Anche se lui è più sperimentale. Ne è venuto fuori un tributo alla forma canzone spalmato su due cd».

Se dico Lee Konitz che le viene a mente?

«‘Ma l’amore no’, progetto più elettrizzante mai inciso nel 1997 con Lee, il trio di Pieranunzi ed Enrico Rava special guest, alternando standard italiani e americani».

Ogni musicista per farsi conoscere prova a far girare qualcosa di suo, lei come s’è regolata?

«Ho scelto di lavorare su materiale non usuale, come appunto per Tenco. Emozioni che pulsavano forti mentre scendevo gli scalini della Torre Saracena di Recco, proprietà della famiglia Tenco: Giuseppe, Patrizia e nipoti mi avevano appena concesso di musicare quattro testi inediti di Luigi. Ne sortì un libro ‘Quasi sera, una storia di Tenco’ più il cd ‘Danza di una ninfa’».

Che c’è nell’agenda?

«Un bell’incontro con un grande artista. Non aggiungo una virgola».

Sogni nel cassetto?

«Non ne ho. Sento che c’è una grande vitalità nel nostro modo di intendere la musica, che m’interessa assai di più che suonare con Quincy Jones o Bill

Frisell. Sono lenta e inesorabile, ma arrivo: ho riscoperto il grande songbook italiano in chiave jazz. C’è il progetto Tencology. Mi piacerebbe fare qualche

concerto in più».

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