Bologna, a Palazzo Fava in mostra tutte le metamorfosi di Zhang Dali

La prima antologica sul padre della street art cinese

Zhang Dali, la mostra a Palazzo Fava a Bologna (FotoSchicchi)

Zhang Dali, la mostra a Palazzo Fava a Bologna (FotoSchicchi)

Bologna, 22 marzo 2018 - Il padre della street art cinese negli anni Novanta, ora tra i massimi artisti del suo Paese e del mondo, è arrivato ieri in città per la sua prima antologica italiana intitolata Meta-Morphosis, a Palazzo Fava (via Manzoni 2) da domani fino al 24 giugno, con curatela di Marina Timoteo. Zhang Dali, che proprio all’ombra delle Due Torri scoprì oltre vent’anni fa la street art – arrivò qui dopo i fatti di Piazza Tienanmen in cerca di una nuova patria e potè avvicinarsi all’arte occidentale – è un simbolo di trasformazione continua.

Mutare nell’approccio artistico per raccontare la trasformazione del suo paese è il fil rouge della sua produzione senza confini e, da maestro dell’anticonformismo, afferma con saggezza che «nel momento in cui da arte marginale la street art è diventata trend ed è stata accettata», lui ha smesso di farla. Aveva cominciato già nella nostra città e proseguito in Cina quando vi tornò nel 1995, acquistando le prime bombolette spray che iniziavano a comparire sul mercato per dipingere le auto, che finalmente i cinesi potevano acquistare.

Per lui – che divenne celebre come AK-47 e con la tag del profilo di uomo spruzzato sui muri in demolizione negli hutongs di Pechino (i vicoli della città vecchia) e poi sventrato personalmente per aprire porte verso un’inedita percezione del presente che distrugge il passato – questa arte di strada è destinata però alla sparizione e non resta che fotografarla, come si scoprirà nella mostra. «E’ molto importante l’atto della street art – spiega Dali, classe 1963 – ed è importante ritornare sul luogo per fotografarla, così da lasciare una documentazione del tuo atto». Aggiunge poi: «Tutto il mondo viene distrutto, non c’è niente che rimane per sempre, anche quei bellissimi quadri che vedete sulla carta o le sculture di bronzo, tutto sarà distrutto. E’ una questione di tempo, più o meno breve, perché non c’è eternità nelle opere umane, è il momento in cui le fai che è eterno».

Dietro ai 30 anni di arte di Dali, raccontati in nove sezioni e con 220 opere tra sculture, dipinti, fotografie e installazioni, c’è sempre la sensibilità di un artista che si mette a fianco della società cinese e la osserva, registrandone i veloci mutamenti. Sono del 2000 i grandi ritratti in acrilico su tela di vinile che raffigurano con la stampa della sua sigla, uomini e donne: «AK-47, come il nome del fucile d’assalto sovietico – racconta l’artista – è un marchio conosciuto da chi è cresciuto negli anni Cinquanta e Sessanta. Per me è la violenza della trasformazione che si ripercuote sulla vita e sui corpi delle persone, è la cultura sovietica imposta in Cina in nome del collettivismo e per negare l’individuo».

E Dali si chiede quindi con le sue opere: «Quanto le persone sono capaci di sopportare?». Ancora uno sguardo all’usurpazione, narrata questa volta con la scultura, nella sezione Chinese Offspring, dedicata ai lavoratori migranti: dal 2004 al 2010 ha riprodotto in calchi, i corpi di contadini venuti in città per cercare lavoro, testimoni di un momento di urbanizzazione epica, «in cui si è perso ogni ideale». L’effetto è davvero come un colpo di fucile. Info: da martedì a domenica ore 10-20.

 

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