Bologna, la New York di Andy Warhol a Palazzo Albergati

Luca Beatrice racconta in anteprima cosa si vedrà dal 29 settembre nella mostra

L’artista allo Studio 54 di New York

L’artista allo Studio 54 di New York

Bologna, 1 agosto 2018 - Lui, il guru con i capelli color bianco alieno, gli occhiali grandi a schermare uno sguardo non svelato. Lui e i suoi amici. Non gente comune, sia chiaro. Jean-Michel Basquiat, Francesco Clemente, Keith Haring, Julian Schnabel, Jeff Koons e altri. Lui nella New York da bere, da assaggiare, da tastare dei gloriosi anni Ottanta del secolo scorso. Ovvero Warhol & Friends la mostra-evento prodotta da Arthemisia e curata da Luca Beatrice che aprirà al pubblico il 29 settembre – naturalmente a Palazzo Albergati di via Saragozza – per chiudersi il 24 febbraio 2019. Uno degli highlights della stagione culturale che verrà.

Beatrice, perché il Warhol degli anni Ottanta?

«Perché vogliamo raccontare anche quella New York e soprattutto perché Warhol negli ’80 torna a essere una figura centrale dell’arte mondiale, dopo essersi forse un po’ perso nei Settanta, complice l’attentato e la ritrosia ad apparire...».

Gli anni Ottanta parola chiave.

«Andy Warhol torna a rivestire i panni di guru per quella nuova generazione di ventenni che si affacciano sulla scena artistica in un clima completamente cambiato rispetto al decennio precedente. Il mondo prende una piega diversa. Basquiat lo insegue, si dice perché vuole vendergli dei suoi disegni...».

Verità o leggenda?

«Non lo sapremo mai, pare una versione accreditata: lo stesso Schnabel ha messo l’episodio nel suo film su Basquiat. Comunque, Warhol diventa anche amico di Haring, poi conosce Francesco Clemente... non a caso tutti e tre saranno ben rappresenatti alla mitica galleria Bischofberger di Zurigo».

Allora, non solo Warhol presente comunque con tante opere, ma anche la ricca cornice in stile Arthemisia...

«Abbiamo voluto incrociare tante storie: la street art, la mostra Collapse del giugno ’80, così come quella nell’81 al PS1 nel Queens intitolate New York New Wave: incroci tra musica, culture, underground. Due mostre fondamentali in coincidenza con l’elezione di Reagan alla Casa Bianca o la morte di Lennon: avvenimenti che scuotono la comunità artistica newyorkese. Poi non dimentichiamo l’Aids: all’inizio virus, alla fine del decennio pestilenza. E ancora, la ricchezza con gli anni trionfali di Wall Street – e quindi l’arte che diventa un bene di lusso più esclusivo di auto o orologi di marca – e infine lo scoppio della bolla e del sogno nel 1987».

Cosa resterà di questi anni ’80: pensando all’Italia vengono in mente solo orrende pettinature, vestiti eccessivamente larghi e programmi televisivi idioti.

«L’Italia anni Ottanta è forse ultimo grande decennio di espansione creativa. La moda sbaraglia quella francese: ricorda American Gigolò dove Richard Gere veste Armani? Aprono i primi ristoranti italiani all’estero. La Transavaguardia si impone nel mondo così come la nostra architettura e il design. È un’Italia abbastanza laicizzata rispetto al periodo passato del duopolio Dc-Pci».

Niente di negativo? Sembra il Paese incantato.

«Certo, c’era lo yuppismo...».

La nascita delle tv commerciali...

«Fine di un mondo e apertura di un altro».

Torniamo alla New York degli anni 80 e della mostra: quando si infrange il sogno?

«Il 22 febbraio 1987 Warhol muore banalmente, a 58 anni, per le complicazioni di un intervento alla cistifellea. Muoiono, tra Aids e droga, Basquiat, Haring e Mapplethorpe. cala il sipario su quel decennio e si chiude un’epoca».

Parliamo delle opere che saranno in mostra. Di Warhol si è visto tutto e il contrario di tutto.

«L’avanguardia è già stata digerita: ho visto mostre di Warhol veramente belle, più lo studi più scopri cose ma volendo lo trovi anche al centro commerciale con le grafiche. Per quanto ci riguarda ci saranno gli highlights imprescindibili come i ritratti di Mao, di Marilyn, l’icona Campbell. Ma anche cose meno consuete come i ritratti di Gianni Agnelli o di Giorgio Armani. Poi i lavori legati alla pubblicità, la serie Duty Free e quella Falce e Martello, tante Polaroid, i Camouflage».

E dei friends?

«Come faccio a citarli tutti... Koons, tantisime foto di Robert Mapplethorpe compresa quella con Patti Smith... poi anche i lavori fatti per la pubblicità e quindi lo studio di quel legame».

Scenografia della mostra?

«Scenograficamente molto ricca, mi piace che la gente si diverta. Tanta musica anche, dalla disco al rock: del resto quelli a New York erano gli anni dello Studio 54, del Palladium (lì lavorarono Clemente e Haring) o dell’Area. Oggi è tutto finito, il contesto culturale è globalizzato...».

Mostre che uniscono rigore scientifico al divertimento: molti intellettuali di solito mettono mano alla fondina...

«Molte mostre oggi sono solo fuffa ideologica. Bisogna vedere quali sono i contenuti. Le cosiddette mostre di nicchia spesso vengono realizzate per i curatori e i loro famigliari».

C’era questo c’era quello...

«Bisogna andare alle vernici per capire chi c’è e farsi vedere sbocconcellando orrendi fingerfood. Finita l’inaugurazione, le sale restano desolatamente vuote. È un modo di fare poco rispettoso del pubblico. Viva le mostre piene di gente, anche ‘divertenti’ e che ovviamente comunicano qualcosa al visitatore».

Lei Bologna la conosce bene e quindi anche ArteFiera che dapoco ha cambiato curatore.

«ArteFiera era come Sanremo: bella, tradizionale, solida come la cucina emiliana. Chiaro che la crisi ha colpito anche lì. Una volta era l’unica in Italia assieme a Bari, poi le fiere d’arte si sono moltiplicate come funghi...».

Si parla di crisi latente da qualche anno...

«Le ultime edizioni mi sono sembrate un po’ confuse. Ma c’è un’incomprensione di fondo: se si deve vendere l’arte, se bisogna vendere gli stand ai galleristi, la figura di un ‘curatore’ artistico è quella giusta? Forse bisognerebbe tornare alla vecchia ArteFiera, cercando di fare affari e invece temo ci troveremo di fronte i soliti convegni, i talk, le festicciole... e non si venderà. Un po’ come MAMbo...».

In che senso?

«All’epoca Maraniello mi sembra ci fosse più sostanza ed è anche vero che c’erano più soldi. Adesso cosa c’è? Boh. Se vuoi fare Adelita Husni-Bey ne paghi le conseguenze».

Perdoni l’ignoranza...

«Adelita Husni-Bey, selezionata al Padiglione Italia all’ultima Biennale di Venezia. Magari non accorre tanta gente».

Torniamo a Wharol che è un pò più celebre. Cosa si porterebbe a casa fra le opere in mostra?

«Con il mio ingaggio prendo poco. Comunque: alcune foto di Mapplethorpe, un dipinto di Peter Alley, il Wharol dei coltelli, dei Duty Free».

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