Pat Metheny Bologna, l'intervista. "La mia vita sulle corde di una chitarra"

Il suo concerto in trio chiude il Bologna Jazz Festival all’EuropAuditorium . E che ci racconta il senso della sua ricerca

Pat Metheny  all’EuropAuditorium in trio con Oleszkiewicz e Barber

Pat Metheny all’EuropAuditorium in trio con Oleszkiewicz e Barber

Bologna, 26 novembre 2019 - L’arte e la felicità hanno canoni indiscutibilmente vicini, ce lo insegna Pat Metheny, venti Grammy Awards, chitarrista par excellence del jazz crossover, abile nel piegare alla propria idea di godimento estetico le continue spinte evolutive che la musica propone. Se così non fosse il jazz contemporaneo resterebbe una rappresentazione di Miles Davis. Un saggio di musica globale – che qualcuno già etichetta come 'mainstream metheniano' – è offerto amrtedì 26 alle 21.15 dal genio del Missouri con la formula del trio all ’EuropAuditorium, appuntamento che conclude il Bologna Jazz Festival (ore 21.15). Trascendentale la ritmica che l’accompagna: Darek Oleszkiewicz (contrabbasso) e Jonathan Barber (batteria).

Metheny, con la formula del trio è possibile che scontenti chi ama le melodie che sconfinano nel folk, ma verrà osannato dagli amanti del jazz. «Mi tengo lontano dalla retorica culturale e politica di chi smembra la musica in sottogruppi, preferisco sottolineare che Oleszkiewicz e Barber non si conoscevano prima, ma si sono rivelati una combinazione fantastica, si bilanciano perfettamente. Suonare in trio per me ha coinciso con un’area di interesse quasi costante, come prova il mio primo disco Bright Size Life ».

I fatti dicono che il ‘miracolo Metheny’ consista nel mettere d‘accordo tutti sia che sbanchi la roulette del jazz con un album come ‘Orchestrion’ sia che incida ‘Beyond the Missouri Sky’ insieme con Charlie Haden. «La musica è estranea ai miracoli. Nel fare jazz vicino a Jim Hall, Bill Evans e Brad Mehldau o free jazz–country folk con Charlie Haden e Jack Dejonette ho cercato sempre di onorare lo spirito del pentagramma, inseguendo le note che trovavo più adatte a un particolare contesto».

Il suo spettro musicale oscilla da Ornette Coleman al folk americano, jazz rock e fusion: c’è un filo conduttore? «Non sono un fan dell’idea di ‘genere’ o stili, per me la musica è una grande portata universale. I musicisti che ho ammirato di più sono quelli che hanno un profondo serbatoio di conoscenza e intuizione non solo delle note, ma della vita in generale e sono in grado di illuminare le cose che amano nel suono. Il musicista che può farlo sul posto, come improvvisatore, è quello che preferisco».

Il Pat Metheny di colonne sonore come ‘Il gioco del falco’ o ‘La mappa del mondo’ vive una dimensione che in qualche modo si avvicina a Morricone? «Premesso che il maestro Morricone è il mio preferito, per quanto riguarda le colonne sonore dei film ogni situazione è molto diversa. Ma di notte non mi sveglio a sognare di scrivere colonne sonore, è un’area di lavoro che ho ‘ritirato’ anni fa dopo aver realizzato una quindicina di progetti cinematografici».

Un musicista con cui le sarebbe piaciuto fare coppia fissa? «Se guarda la lunga lista di quelli con cui ho lavorato scopre una sorta di vocabolario condiviso che apre la possibilità di produrre suoni insieme. Ho un forte istinto per capire chi sarebbe un buon compagno di interplay in tutte le direzioni».

Una volta ha definito i jazzisti come gli ascoltatori più sensibili. Può spiegare perché? «Quando penso alla comunità di musicisti di cui faccio parte, vedo un gruppo di persone qualificate che potrebbero suonare con Beyonce una notte e con la New York Philharmonic quella successiva, fluenti nel linguaggio, all’avanguardia dell’improvvisazione moderna, con una distinta identità sonora».

Con chi ha trovato maggiori assonanze tra Santana, Pino Daniele e David Bowie? «Sono splendidamente alla pari, non saprei giudicarli come particolari tipi di musicisti, ma come esseri umani in grado di descrivere in modo personale il mondo che li circonda nel suono».

Qual è il disco che non farebbe più e che cosa vorrebbe tornare a fare? «Per me tutto ciò che ho fatto è un lungo disco, una singola canzone».

Cosa consiglia a un giovane musicista che si avvicina al jazz? «Di essere il peggiore in ogni band in cui si trovi. Frequentare persone migliori, da cui si può imparare, è essenziale».

Se non fosse Metheny chi vorrebbe essere? «È una domanda al buio, come la musica senza i grappoli dell’improvvisazione. Incantesimi che ho scoperto a quindici anni, quando vivevo in un borgo rurale di Kansas City».

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