Bologna, 2 agosto 2010. «COS’È STATO?, chiese un collega. Ma nessuno rispose, forse anche perché quel tuono opaco in arrivo da chissà dove, filtrato dalle case e dai rumori del traffico non aveva nulla di minaccioso e solo l’atterraggio di una terrorizzata squadra di piccioni che parevano in avanscoperta spinse un altro e un altro e un altro ancora a insistere: ‘Cos’è stato? Cos’è stato? Cos’è stato?. E sulla domanda il piazzale della Questura si animò d’improvviso, e nella quiete di quel 2 agosto dell’80, un drammatico concerto di voci e di sirene prese spinta e invase le strade tutt’intorno e chiese spazio sempre più in là, come un serpentone lamentoso e tragico inseguito da altre sirene e dai clacson in una una strana atmosfera di fretta come in un film dalla pellicola impazzita. «C’è stato uno scoppio in stazioneeee», ci urlò un agente da una ‘pantera’, e l’ultima ‘e’ si perse in una striscia inghiottita dalla sgommata.

Laggiù, in viale Pietramellara, ci arrivammo da via Amendola con un autobus che a quell’ora di metà mattina era affollato quasi solo di pensionati e di donne con la borsa della spesa. E quando il collega Sandro Bosi disse all’autista che eravamo giornalisti e gli chiese di ‘accelerare un po’ perché può essere successo qualcosa di molto grave’, le facce dei passeggeri presero subito un’espressione preoccupata e le voci si fusero in un piccolo coro di ‘speriamo di no, mamma mia, che tempi, io ho un’amica che lavora al bar sui binari...’.

E POCO DOPO, su quelle considerazioni, le immagini si aprirono sullo scenario di un nuvolone di polvere grigia e sporca che prendeva alla gola, venata da un vago tono rossastro e di macerie e di schegge di valigie e di chissà cos’altro che il sole accendeva di tetri riflessi. Da quel sipario di aria bruciata sbucarono d’un tratto, qua e là, come sul palcoscenico di un altro mondo, sagome vestite di stracci, ombre senza meta, uomini e donne dal volto insanguinato e dall’espressione stupita che parevano fantasmi ambulanti e costretti a una sortita mattutina o anche maschere di una tragica commedia senza copione. E tutt’intorno, in un tumultuoso incrociarsi di raffiche di lampeggianti blu e arancione, un policromo presepe di mezzi della polizia, dei carabinieri, dei vigili del fuoco, di ambulanze, di autobus, di camici, di barelle e di divise aggiungeva a quel drammatico teatro un tocco di sinistra spettacolarità.

I colleghi Romy Grieco, Lamberto Sapori e Roberto Canditi erano già lì e chiamavano il giornale dall’albergo di fronte alla stazione e dicevano "è terribile, una strage, ci sono tanti morti, tanti, tanti...". Sulla strada le ipotesi correvano inseguite dalle sirene. «Il gas», disse uno. «La caldaia», corresse un altro. «Macché, una bomba», azzardò un sussurro davanti all’immagine spettrale di uno treno sventrato, con i finestrini affollati di gente stravolta che urlava, ma che rimaneva lì come in attesa della partenza di un convoglio di dannati per l’inferno. Più indietro, un uomo cercava il figlio su una collinetta di detriti e correva tra i sassi e chiamava il suo nome, ma dalle macerie veniva su soltanto un debole sciame di gemiti e di lamenti. A un certo punto fu costretto a fermarsi: la morsa di una mano gli serrava la caviglia e quando l’uomo abbassò lo sguardo incrociò quello di una vecchia semisepolta, che aveva la faccia insanguinata e che non parlava. E allora si chinò sul volto di pietra, spinse via un detrito tra il collo e la spalla e riprese le ricerche del suo ragazzo, che era a due passi, ferito, ma salvo. Uno scenario apocalittico nel quale gli autobus si muovevano lentamente in viaggi senza fermate e parevano senza passeggeri, che invece erano distesi tra i sedili, immobili per sempre, e i capolinea erano le camere mortuarie e l’obitorio.

Così incontrammo quel lontano, terribile mattino. Così lo ricordiamo ancora adesso noi giornalisti che corremmo in quell’inferno di polvere, di pietre e di sangue, presidiato dall’orologio fermo alle 10,25 e da un uomo in camice bianco che aggiornava su un foglio, come un freddo notaio della morte, la lista dei corpi recuperati.