DOPO OBAMA, l’‘altro’ Bersani, l’amico di papi e statisti? Giovanni Bersani, 96 anni, ha una vita da Nobel per la Pace. Lo pensano in tanti, nel mondo politico-sindacale e cattolico. Tra chi ha conosciuto l’opera straordinaria del «senatore» sta crescendo un movimento d’opinione per presentare la sua candidatura all’Accademia svedese.
«Il concetto di impegno sociale», il titolo della tesi in Filosofia del diritto, era il ’37, Bersani aveva 23 anni. Prima ancora, da studente del Minghetti, l’incontro con Moro e Rumor. Qualche anno fa dalla Regione era partita la proposta di nominarlo senatore a vita. Tutti d’accordo a presentare una segnalazione al presidente della Repubblica. Ma l’interessato si era tirato indietro: «Non vivo a Roma, non posso garantire l’attività richiesta». Questo lo stile dell’uomo. Ha dedicato la seconda parte della sua vita ai poveri del mondo. Sei anni fa il Comune gli ha conferito l’Archiginnasio d’Oro.

 


Quella volta che i comunisti l’accusarono di dirigere «la politica segreta di De Gasperi» nelle campagne emiliane. Era il ’53. Il settimanale ‘Vie nuove’ spedì a Bologna un inviato è titolò a tutta pagina: «E’ riapparso il serpente velenoso». Lei aveva 39 anni, era avvocato e sottosegretario al Lavoro, Dc.
Giovanni Bersani, il senatore, ha un lampo d’ironia negli occhi. Sabato mattina al lavoro nello studio di via Lame 118, la centrale del Cefa, onlus di cui è presidente onorario. Sorride e ricorda. «In Emilia Romagna c’era da quarant’anni la guerra civile fra braccianti e proprietari. Da Bologna, con un gruppo di amici, proponemmo una legge. I braccianti che volevano comperare la terra potevano avere un mutuo dallo Stato a tasso molto conveniente, diluito in trent’anni. Proprio su quel che succedeva nelle campagne avevo fatto il mio primo discorso alla Camera, nel ’48. Venivo da otto anni di guerra».
 

Capitano in Francia, Albania, Grecia.
«Per poco non sono partito per El Alamein. Sul fronte albanese mi sono congelato la gamba sinistra. Era nera come il carbone ma non potevo curarmi, ero l’unico ufficiale rimasto vivo».
 

Partigiano in Val d’Idice.
«Alla fine con i comunisti abbiamo collaborato. Diventai presidente del Cnl, il comitato di liberazione nazionale a Bologna. Sono state fatte cose straordinarie perché si dovevano gestire realtà inedite».
 

La guerra.
«Si è presa la parte più bella della mia giovinezza. Me la sono bruciata così. Lo racconterò in un libro che sarà pubblicato quando sarò morto». Sorride: «Quindi tra non molto».
 

Veramente i bolognesi hanno ben altri progetti su di lei. Vogliono candidarla al Nobel per la pace.
Sguardo che scruta: «A me? Lasciamo perdere».
 

La sua vita è da Nobel, ripetono molti.
«Tante cose mi sono capitate mio malgrado».
 

Una costante, il suo impegno cattolico.
«Ho dato vita alle Acli bolognesi, appena tornato dal fronte. Ero stato a Roma da Giulio Pastore e Achille Grandi. Ricordo il primo incontro con Papa Pio XII. Costituii l’associazione dei lavoratori cristiani e le cooperative. Voleva dire diventare il nemico. Tutto doveva essere unitario. La terra non si compera, si conquista, scriveva il Pci sui manifesti».
 

Le violenze nella Bassa e il grande dolore, l’omicidio di Giuseppe Fanin.
«E’ stato la notte del 4 novembre ’48. Erano giorni terribili. Incidenti e aggressioni continue. Donne insultate e ferite. Mi ricordo il mio primo discorso alla Camera, su quel che succedeva nelle campagne».
 

Da sinistra come l’accolsero?
«Con tutti gli insulti possibili. Di Vittorio mi gridò: vergogna! Non mi fermai, lessi i bollettini degli ospedali. Mi ascoltarono in silenzio. Pertini, presidente dei socialisti, mi prese sottobraccio e nella sorpresa generale mi offrì un caffè».
 

Si alleò con Nenni.
«Mi fermò in Parlamento, urlava: cosa stai facendo? Ma alla fine furono proprio i socialisti a rompere il fronte e a diventare proprietari di un’azienda agricola. I comunisti cominciarono a pensarci».
 

Lei guardava al mondo. Il 50 è l’anno della Comunità europea.
«E da Rimini a Piacenza in Emilia Romagna vengono su seicento imprese agro-industriali promosse da Acli e Confcooperative. Siamo diventati la regione agricola più pacificata e più ricca d’Italia. Il grande miracolo».
 

Ma ci hanno messo il marchio i comunisti.
«No, questa storia l’abbiamo scritta noi. E ce l’hanno riconosciuto. Vorrà pur dire qualcosa se ho ricevuto quattro cittadinanze onorarie a Medicina, Minerbio, Crevalcore e Castel San Pietro, dove più ero stato contestato».
 

Quanto ha contato la fede nella sua vita politica?
«Senza, non sarebbe mai successo niente. A parte i miei sentimenti, hanno determinato tutto gli incontri. Facevo ancora il liceo Minghetti, mi nominarono vice delegato nazionale degli studenti medi. Incrociai Rumor e Moro. Giovani che avrebbero fatto la storia d’Italia».
 

Legami.
«Amicizie che venivano molto prima della politica. Era una condivisione di ragioni fondamentali nell’esperienza umana. Non avrei mai potuto affrontare certe imprese, altrimenti».
 

Non si vede traccia di questo nella politica, oggi.
Annuisce. «Ho sempre considerato la politica un’attività straordinaria, ma di servizio e di grande responsabilità, in cui uno giocava il tutto per tutto. In molte decisioni difficili, sono andato anche contro il parere dei miei amici».
 

Alla fine dice a se stesso: avevo ragione io?
«No, penso di aver fatto quel che potevo. Adesso è importantissimo lavorare al rapporto tra Bologna e il mondo. La nostra città ha un ruolo europeo e internazionale».
 

L’ultima impresa.
«Le due fondazioni. ‘La città solidale’, per le aree povere di Bologna, e Nord-Sud, per la cooperazione internazionale. Sono certo, sarà una delle cose che onoreranno di più il nome dei bolognesi nel mondo. Oggi diamo centomila euro di contributi all’anno in progetti. Presto raddoppieremo».
 

Lei non si è mai sposato. Una scelta religiosa?
«Questa è una bella domanda. No, non è stato un voto. Ho sempre avuto una visione laica del mio impegno. E’ andata così. Quando sono tornato dal fronte ho vissuto tra attentati e minacce. Mi sono sempre detto: aspettiamo. Volevo sposarmi, certo. E mi dispiace non aver avuto figli».