Bologna, 2 novembre 2011 - Una grande croce, segnata dalla scritta ‘dedicato ai bimbi non nati’, ha guidato la processione di fedeli che si sono incamminati, recitando il rosario, verso il nuovo campo destinato ai piccoli defunti della Certosa. Un’ottantina di persone, guidate da Paola Dalmonte, responsabile del settore Maternità difficile dell’associazione Papa Giovanni XXIII, sono accorsi ieri alla Certosa per un’ultima preghiera davanti a 77 piccole tombe, 77 numeri e un solo nome, Francesco, nel prato del cimitero.

Nel giorno di Ognissanti, alla vigilia del quarto anniversario della morte di don Oreste Benzi, l’associazione fondata proprio dal parroco riminese ricorda i bambini mai nati, che per diversi motivi non sono riusciti a venire alla luce. I canti e le preghiere della processione vanno «a tutte le creature umane all’alba della vita, tutti i piccoli defunti — commenta la responsabile Dalmonte — che sono vissuti per brevissimo tempo, ma non per questo meno uomini perché la preziosità della vita non dipende dalla sua lunghezza». La responsabile dell’associazione pone l’attenzione proprio sulle parole spesso utilizzate per descrivere una nuova vita che nasce: «Quando si è ‘feti’? Quando si diventa ‘bambini’? Dove sta la differenza?».
 

Momento conclusivo e culminante della preghiera, la testimonianza di una giovane coppia, Elisa e Luigi, che la scorsa settimana ha deposto alla Certosa le spoglie del loro nascituro, morto prima di venire alla luce. L’unico, tra 77 cartellini con un numero piantati nel terreno, ad avere il proprio nome, Francesco, scritto in giallo su una capannina blu contornata da una girandola di petali colorati. «Francesco — spiega Elisa — è stato sepolto il 25 ottobre: siamo sposati da 5 anni e abbiamo saputo ad agosto di aspettare un bambino, un bambino molto atteso e desiderato. A fine agosto, da una prima ecografia è emerso che qualcosa non stava andando bene e — ha aggiunto — da un secondo controllo abbiamo avuto la certezza del fatto che il bimbo non si muoveva più. Non volevamo che finisse tra i rifiuti ospedalieri e così, nonostante le difficoltà burocratiche e la nostra non conoscenza sui passi da compiere, siamo riusciti a seppellirlo martedì scorso».
 

Un percorso tortuoso, dal momento che per gli embrioni che non hanno raggiunto le 20 settimana dal concepimento la sepoltura è solo su richiesta dei genitori, spesso ignari dell’esistenza della possibilità. «Dopo il raschiamento, avvenuto al Sant’Orsola, Francesco mi è stato consegnato in formalina. Mi sono sentita un aliena mentre prendevo l’autobus con mio figlio nella borsa. In Certosa abbiamo scoperto che mancava il certificato di sepoltura, così abbiamo contattato la direzione sanitaria dell’ospedale e abbiamo riavviato la procedura: mai embrione ha girato tanto!», racconta Elisa. «I medici del Sant’Orsola sono stati molto disponibili, anche se non si hanno molte indicazioni sui passi da intraprendere in questi casi». C’è bisogno, secondo Elisa e Luigi, di più informazione, soprattutto fra le giovani coppie, e una snellimento delle procedure.

«Pur se breve — ha proseguito Elisa — la vita di Francesco è stata un dono meraviglioso, come la sensibilità e l’umanità di quanti, medici, volontari e amici, ci sono stati vicini in questo momento. La sepoltura è importante perché dà rispetto e dignità alla persona, anche un embrione di tre millimetri, e il poter dire di aver fatto di tutto per consegnarli piena dignità è un passo importante per l’elaborazione del lutto». «Francesco è una persona: il suo corpo è qui — conclude Elisa, deponendo i fiori davanti alla piccola tomba — e la sua anima è sempre con noi».