Bologna, 10 luglio 2012 - Riceviamo e pubblichiamo la lettera che Felice Signoretti, lo storico preside delle Laura Bassi che va in pensione.

"Care Studentesse, Cari Studenti del “Laura Bassi”, dal primo settembre 2012 cesserà la mia permanenza nella vostra scuola. Vi arrivai giovane, da Venezia dove ero stato Preside di un famoso Liceo cittadino, uno dei pochi Licei sperimentali esistenti allora in Italia. Voi dovevate ancora nascere. Per quasi un quarto di secolo sono rimasto nell’antico edificio di Via S. Isaia, dandovi tutto quel poco che avevo da dare, in termini di capacità intellettuali, di entusiasmo, di slancio affettivo. In tutti questi anni ho visto passare generazioni, avvicendarsi docenti e personale, mutare radicalmente la vita politica cittadina e nazionale.

Era allora il “Laura Bassi” (a Bologna si dice ancora le “Laura Bassi”) una piccola scuola, senza attrezzature, con un solo apparecchio telefonico, una antiquata fotocopiatrice, quattro personal computer, che oggi giudichereste veramente primitivi. Nel mio ufficio solo una bellissima macchina da scrivere anni Cinquanta, laboriosa da usare perché mancante di due tasti. La popolazione studentesca non arrivava a 300 studenti. L’Aula Magna, nel suo squallore disadorno e con le sue sedie da oratorio parrocchiale, mi colpì in modo particolare per il suo contrasto con la grande Aula ad anfiteatro, modernissima, che avevo lasciato a Venezia. Non esisteva neppure un impianto di amplificazione.

Compresi subito che ero capitato in una scuola agonizzante, cui nessun Preside bolognese ambiva perché destinata a scomparire. Vi avevano trasferito me, in quanto di poca esperienza e completamente ignaro dell’ambiente cittadino. Ma non avevano fatto i conti con la mia etica professionale, in base alla quale, qualunque posto si occupi nella società, è dovere inalienabile di chi lo occupa adoprarsi al meglio perché ciò di cui è responsabile acquisisca e mantenga piena funzionalità, in base alla propria mission, piccola o grande che sia.

E così mi misi subito al lavoro, con l’entusiasmo e la fiducia che coltivavo in me. Con la vecchia macchina da scrivere mi rinchiusi nell’ufficio di presidenza, buio e raggiungibile solo da anguste scale, e cominciai a scrivere progetti di sperimentazione, regole di organizzazione degli uffici, proposte per il rinnovamento didattico, amministrativo, patrimoniale. Cercai di infondere nei miei collaboratori e in tutto il personale la consapevolezza che occorreva sentirsi tutti coinvolti in una grande azione innovativa, risvegliandosi dai torpori di anni di stasi e di involuzione. Nei momenti liberi mi tuffavo continuamente nelle aule, per conoscere direttamente studenti e docenti, ascoltarne i problemi, consigliarli, spingerli tutti in una vita di impegno e di trasformazione. A ciascuno riservavo un sorriso, una parola di incoraggiamento, un gesto di affetto.

Una mattina d’inverno, mentre sorbivo in un bar qualcosa di caldo, mi cadde lo sguardo su un articolo di giornale, che annunciava la chiusura del “Laura Bassi”, per un accordo tra Amministrazione comunale e Provveditorato agli Studi. Non rimasi a guardare. Furono mesi spesi a far capire, soprattutto agli amministratori bolognesi, che non si poteva chiudere senza appello una scuola che aveva segnato per più di un secolo la vita della città, una istituzione di grandi tradizioni, un luogo che aveva avuto un ruolo profondo nella costruzione di una Bologna aperta, democratica, civile.

Un giorno di primavera, nel buio del mio ufficio, spuntò da dietro la porta un signore vestito di grigio. Era l’Assessore all’Istruzione del Comune di Bologna. Era venuto a dirmi che aveva molto riflettuto sulle mie azioni e sulle mie parole in difesa del “Laura Bassi” e che la Giunta comunale aveva deliberato di soprassedere temporaneamente alla annunciata chiusura. Gli risposi, ringraziandolo, che non si sarebbe pentito e che presto avrebbe rivisto ampliarsi e trasformarsi il vecchio Istituto Magistrale (tale era allora il “Laura Bassi”).

E così fu. Vincendo parecchie resistenze interne ed esterne la scuola che dirigevo rinnovò completamente i suoi corsi e la sua didattica. Divenne Liceo Pedagogico, Liceo Linguistico, Liceo delle Scienze Sociali. E passò da 270 a 1400 studenti, ponendo il problema all’Amministrazione provinciale e a quella comunale della sua sistemazione logistica.

Ognuno, dicevo, deve saper stare al suo posto e dare il meglio di se stesso per occupare degnamente tale posto. Avrei potuto pensare egoisticamente a me stesso, accettare l’offerta che mi fu ripetutamente rivolta di assumere la Presidenza del Righi, del Minghetti, del Galvani, impegnarmi, come mi era stato insistentemente proposto, nell’attività politica e sindacale. Non lo feci, nel rispetto di chi aveva avuto fiducia in me e di chi con me si era impegnato per costruire una nuova scuola. Ma soprattutto non lo feci perché ritenevo che gli studenti del “Laura Bassi” meritassero che per loro, per il loro futuro, si lavorasse, rispettandoli, valorizzandoli, incoraggiandoli. E non lo feci perché rimango nella ferma convinzione che dovunque la vita ci ponga e qualsiasi sia il ruolo che siamo destinati ad occupare è nostro compito impegnarci a fondo, spendendo generosamente noi stessi, restando fermi nel sorriso anche nei momenti più bui, pur nell’abbandono degli uomini e nell’irrisione dei falsi detentori di verità.

Li vidi ad uno ad uno
mentre aprivano la mano
e mi mostravano la sorte
come a dire “Noi scegliamo,
non c’è un dio che sia più forte”
e l’ombra nera che passò
ridendo ripeteva no, no, no.
Ascolta, ero partito per cantare
uomini grandi dietro grandi scudi,
e ho visto uomini piccoli ammazzare
piccoli, goffi, disperati e nudi.

(Roberto Vecchioni, L’ultimo spettacolo)
 

Se dovessi, dopo tutti questi anni, guardarmi indietro e tentare un bilancio, potrei cadere nella tentazione di credere che la mia azione sia stata destinata al fallimento. Le sconfitte e le umiliazioni che ho subito sono state tanto cocenti e tali da gettarmi, in alcuni momenti, in un grande sconforto, togliendomi forza e fiducia. Ho conosciuto gente meschina ed egoista, chiusa ad ogni impulso generoso, sorda ad ogni anelito di libertà, incapace di concepire la vita come una avventura senza fine. Ma soprattutto non è questa la scuola per cui ho sempre lottato, la scuola che ho sempre sognato per i miei studenti, fin da quando ero giovanissimo professore, appena ventenne.

Io sogno una scuola in cui a ciascuno studente, uno ad uno, venga riservata tutta l’attenzione necessaria. Una scuola in cui lo studente possa sentirsi protagonista del suo futuro. Una scuola in cui la fatica del crescere e del sapere sia associata al senso compiuto della propria realizzazione, senza rinunciare allo slancio della vita e dell’esistenza. Una scuola in cui non si premi la furbizia, il sotterfugio, la finzione, l’ipocrisia, ma in cui ogni studente si senta valorizzato per ciò che è e per ciò che sa dare. E’, quella che sogno, una scuola fatta di Maestri. Di veri Maestri, non di piccola gente che si dedica astiosamente all’insegnamento vivendolo come un ripiego professionale o come un mezzo per avere un qualche ruolo sociale.

L’educatore non guida il giovane né agli affari, né ad una vita ricca di successo, né ad un partito politico: egli, lo si intenda rettamente, lo guida a se stesso, cioè a quelle zone più profonde del suo intimo, dove comincia a sentire voci misteriose e sacre…Educare non è la mera trasmissione del patrimonio culturale dei genitori agli adolescenti. Codesti valori rappresentano solo il mezzo per sviluppare una più alta capacità di cultura. Per questo devono formarsi lentamente da posizioni interne: intenzioni, atteggiamenti di valore, legame con gli ideali del vero, del bene e del bello. In breve: deve venirne fuori un uomo trasformato e nobilitato. Se l’educazione non penetra fino a queste profondità, non è vera educazione, ma, nel migliore dei casi, istruzione.

(Eduard Spranger, Difesa della Pedagogia Europea)
 

Maestri che sappiano prima di tutto ascoltare, facendosi piccoli come i propri alunni. Che sappiano leggere nel cuore e nella mente di chi è a loro affidato, nella consapevolezza che non è nell’insegnamento delle regole il proprio compito, ma nella dialettica aperta e feconda della vita e della crescita. Maestri che sappiano tacere al momento giusto, perché educare non è imporsi, ma continua azione in cui si offre e si riceve. Maestri che sappiano crescere insieme a chi li ascolta e che in ogni momento, di fronte ai gesti e alle parole degli alunni, sappiano porsi in crisi, ripartendo per nuove mete e con nuovi mezzi. Maestri che sanno che la verità non è detenuta solo da alcuni, ma si ricerca continuamente nell’umiltà e nella pazienza. Maestri il cui silenzio sia più eloquente di ogni parola. Maestri animati dal coraggio e dalla fermezza, capaci di trasmettere la volontà di costruire una società giusta, convinti che nella grande, impareggiabile, unica avventura della vita vanno sempre esplorati nuovi orizzonti, nuovi sentieri, nuove sconosciute isole. Maestri capaci di pagare di persona per le proprie idee e per la propria fede, lasciando nel loro insegnamento piena testimonianza che la vita va affrontata fino in fondo, perché dono incomparabile da esplorare e trasmettere.

Questi Maestri vi auguro di trovare, ascoltare, seguire. Io, piccolo uomo di scuola, non ho saputo esserlo, ma auguro a voi, ai vostri figli, di poter vedere una scuola come io la sogno.

Come ti metti in viaggio per Itaca,
devi augurarti che sia lunga la strada,
ricca di avventure e di conoscenze.
I Lestrigoni e i Ciclopi,
l’ira di Poseidone non temere,
ma li incontrerai sul tuo cammino
se il pensiero è alto, se nobile
il sentimento che ispira il corpo e lo spirito.
I Lestrigoni e i Ciclopi,
il feroce Poseidone non li incontrerai,
se non li porti dentro l’anima,
se l’anima non te li alza contro.

(Kostandinos Kavafis, Poesie d’amore e della memoria)


Non sciupate i vostri talenti. Impegnatevi nello studio. Non solo per acquisire conoscenze e competenze che vi consentano, un giorno, di svolgere bene il vostro ruolo e il vostro lavoro, ma per fondare la vostra esistenza sul senso autentico della cultura, che è curiosità, umiltà, lotta al pregiudizio, ascolto e rispetto dell’altro. Senza rinunciare a voi stessi, trovate sempre nell’ascolto dell’altro la possibilità di conoscere voi stessi. Contribuite, nella vostra famiglia e nel vostro posto di lavoro, a fondare una comunità nuova, in cui ciascuno si muove incrociando i passi dell’altro, affiancandoli, sostenendoli, aperto a tutto ciò che è diverso ed ignoto.

Non da oggi vado ripetendo che la nostra società si sta dirigendo verso la barbarie. Dai quasi inconsapevoli “piccoli passi” iniziali, mi pare che l’andatura si sia sempre più accelerata e l’emergenza di alcuni fattori ormai deleteri ci porti a riconoscere che ormai ci troviamo in una barbarie diffusa: non si tratta solo di assenza o debolezza della cultura, ma di una ferita alla civiltà inferta dall’affermazione di comportamenti indegni dell’uomo che non cercano la qualità della convivenza ma la oltraggiano.

(Enzo Bianchi, L’altro siamo noi)

Lo studio è fatica ed anche dolore. Ma non siamo stati posti su questa terra per non lasciarvi alcuna traccia. Lo studio ci offre gli strumenti per conoscere e trasformare il mondo. Con lo studio siamo messi in grado di far sì che un granello di noi, delle nostre idee, della nostra esistenza, possa rimanere nel grande mare dell’essere, in cui il silenzio e l’oblio tendono a tutto avvolgere. Non ascoltate quelle che ho definito più volte le sirene di morte. Tramite lo studio potrete resistere al loro canto ammaliatore, il quale, attraverso il disprezzo della cultura, del rispetto reciproco, del culto dell’onestà, vi promette successi, facili guadagni, finti paradisi, per lasciarvi in pasto al tedio, alla nausea, al disgusto. Rispettate il vostro corpo e la vostra mente. Il rumore, l’alcool, la droga, la barbarie del gesto e dell’eloquio non rendono giustizia alle creature meravigliose che voi siete, alla vostra capacità di far risplendere le cose più belle, alla poesia che è nel vostro cuore. Esigete per i vostri figli una scuola fatta di persone competenti e capaci, che sappiano capirli e valorizzarli. Una scuola in mano a quei Maestri che vi ho indicato.

Tornate all’impegno politico. Non lasciate che sublimi impostori o tenaci imbecilli si arroghino il diritto di governarci. Non delegate a costoro le scelte amministrative ed economiche. E’ duro e difficile, lo so, in questo nostro Paese in cui il merito non viene in alcun modo premiato, pensare di poter vedere apprezzate la propria intelligenza e la propria cultura. Ma occorre non cadere in questo orrido meccanismo, per cui gli impostori e gli imbecilli di cui parlavo si sono creati un Eden in cui possono spadroneggiare liberamente e impunemente, abbarbicati alle proprie poltrone e ai propri privilegi. Occorre spezzare questo cerchio perverso: voi potete farlo, con il vostro coraggio e la vostra determinazione. Non cadete mai nella tentazione del cinismo. Siate invece ingenui, tanto profondamente ingenui da credere che il mondo può essere cambiato e che è possibile sovvertire i biechi strumenti di uno stupido ed arrogante potere. In definitiva siate sempre e ovunque tanto ingenui da essere rivoluzionari, nelle vostre parole e nelle vostre azioni.


Il cavaliere dell’eterna gioventù
seguì, verso la cinquantina,
la legge che batteva nel suo cuore.
Partì un bel mattino di luglio
per conquistare il bello, il vero, il giusto.
Davanti a lui c’era il mondo
coi suoi giganti assurdi e abbietti
sotto di lui Ronzinante
triste ed eroico.

Lo so
quando si è presi da questa passione
e il cuore ha un peso rispettabile
non c’è niente da fare, Don Chisciotte,
niente da fare
è necessario battersi
contro i mulini a vento.

Hai ragione tu, Dulcinea
è la donna più bella del mondo
certo
bisognava gridarlo in faccia
ai bottegai
certo
dovevano buttartisi addosso
e coprirti di botte

ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro
e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella.

(Nazim Hikmet, Poesie d’amore)

 

Siate pazzi. Tanto pazzi da andare per il mondo a proclamare la giustizia e la pace. Tanto pazzi da non cedere a facili e false illusioni. Tanto pazzi da spendervi generosamente per gli altri, siano essi i vostri figli, parenti, vicini o gli individui di cui non conoscerete neppure il nome. Tanto pazzi da avere il coraggio di aiutare gli altri, di fare della vostra vita una continua missione al servizio degli altri. Tanto pazzi da non rinunciare a ciò che è giusto perché altri vi diranno diversamente. Tanto pazzi da non accettare mai una vita da servi, lasciando ad altri il compito di decidere ciò che è meglio per voi. Tanto pazzi da essere disposti anche a sacrificare la vostra esistenza, se questo potrà servire a riempire il mondo di azzurro.

Credevo che il mio viaggio
fosse giunto alla fine
mancandomi ormai le forze.
Credevo che la strada davanti a me
fosse chiusa
e le provviste esaurite.
Credevo che fosse giunto il tempo
di trovare riposo
in un’oscurità pregna di silenzio.
Scopro invece che i tuoi progetti
per me non sono finiti
e quando le parole ormai vecchie
muoiono sulle mie labbra
nuove melodie nascono dal cuore
e dove ho perduto le tracce
dei vecchi sentieri
un nuovo paese mi si apre
con tutte le sue meraviglie.

(Rabindranath Tagore, Gitanjali)

Questa ultima poesia di Tagore per significarvi che questo non è, né vuole essere, un addio. A presto, meravigliose ragazze, meravigliosi ragazzi del “Laura Bassi”.

Felice Signoretti