Pec (Kosovo), 24 marzo 2013 - La neve addormenta Decani in una notte più nera del buio: dentro il monastero ortodosso, il più grande dei Balcani, le voci dei monaci si rispondono in un rimpiattino baritonale. Nella culla della cultura serba, il giovedì viene aperta una tomba. Dentro c’è il re Santo Stefano, custode di un terribile segreto, ma dalla fine del 1300 capace di guarire chi passi sotto la sua arca. Poche ore più tardi, un monaco barbuto, sottile e alto due metri, fa il giro della chiesa con un martelletto e una tavola di legno: è il Symandron, la campana (silenziosa) degli sconfitti. Richiamo millenario alla preghiera con discrezione. E qui, in Kosovo, gli ortodossi possono solo essere discreti.

La guerra del ‘99 e gli incendi alle oltre cento chiese del 2004 li hanno relegati a un terribile isolamento. Decani ne è la prova: sotto assedio perenne da parte degli albanesi, il patrimonio dell’Unesco è difeso giorno e notte dai soldati italiani, in nome e per conto della Nato. È il simbolo di un patrimonio a rischio in quest’Europa ancora in guerra.

Il colonnello Ascenzo Tocci e i ragazzi dell’Esercito del 121esimo reggimento artiglieria contraerea ‘Ravenna’ di Bologna controllano che la strada per Decani non si riempia di rabbia. Gli albanesi, pochi giorni fa, erano duemila: sono stati fermati dai soldati che, in questa missione così vicina e così dimenticata, ricordano al mondo «che ci siamo mossi per i Buddha afghani e non facciamo niente per i monasteri ortodossi del Kosovo. È come se distruggessero San Marco a Venezia e nessun intellettuale facesse niente», per dirla con Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia e ‘amico’ di Decani. L’Italia si prende cura di questo pezzo di terra tra il Montenegro e la Serbia: «Prima del 1999 eravamo in diecimila ortodossi, dopo la guerra eravamo rimasti solo in seicento. Dal 2004 siamo appena quindici — racconta lo ieromonaco Andrej mentre calpesta la cenere del devastato seminario di Prizren, capitale musulmana del Kosovo —. Le nostre uniche speranze di futuro sono le garanzie della comunità internazionale e dei soldati italiani. Non ci fidiamo della protezione della polizia statale. Ma di voi sì».

La base italiana è a Pec, centro-chiave della guerra dei Balcani. Anche qui sono gli albanesi i più presenti, ma le enclave serbe non si contano. A ogni passo un bambino saluta e una famiglia apre la porta. A Zhdrelle arrivano anche i carabinieri per le donazioni nella scuola elementare: Ilham ha disegnato uno spazzolino da denti e una scatola di cioccolatini, sono questi i suoi desideri. Verrà premiata anche da caramelle a forma di puffo. Pochi chilometri e un’ora più in là, a Gjakova, dove l’Aeronautica ha realizzato un aeroporto dal nulla, Bleona e Hassim non si curano della neve. Anche se hanno appena dieci anni e la loro casa non ha le finestre né i termosifoni. Né il bagno. Cioè, il bagno c’è, ma è un buco maleodorante in mezzo al ghiaccio, a metà del cortile. Oltre il caseggiato, però, una Mercedes senza targa accoglie due ragazze imbellettate.

FORSE sono dirette a Mitrovica. Le auto senza numero portano lì, ai residui della guerra. Verso il confine settentrionale, scorre il fiume Ibar che separa due Mitrovica: a sud quella albanese, a nord quella serba. Lì gli equilibri si ribaltano. Quasi una città-stato: i residenti non pagano né bollette né tasse, ogni due giorni qualcuno muore nelle torri oltre il ponte di Austerlitz, anche questo vigilato dagli italiani. Milan Radovic vende magliette con i teschi («I cetnici torneranno»), poi offre grappa alla ciliegia: «I politici non fanno nulla, noi vogliamo essere autonomi dagli albanesi, non vogliamo vivere in uno Stato con loro. Siamo nati in Serbia e continuiamo a essere serbi», dice.

È lo stesso destino di Decani che, per la geografia internazionale, è la capitale culturale ortodossa serba, ma anche la miccia dello scontro interetnico nel cuore musulmano dell’ex Jugoslavia. Mitrovica s’allunga sulle colline e su una di queste spuntano le fosse comuni. Camminando s’inciampa in tibie spezzate e frammenti di mandibole. «Ratko è con noi», sanciscono due arcigni paramilitari. Uno fa il segno della croce davanti al maxi poster di Mladic, il generale dei massacri. Una pentola piena di fagioli bolle davanti ai cadaveri dimenticati.

Scendendo verso il basso, Borgiani e le sue case bruciate. Da una spunta Aneta, un’anziana albanese, questa volta è lei a essere in minoranza: «Ho vissuto da sola con tre figli e una figlia nei boschi durante la guerra, per anni — racconta —. Ora grazie ai soldati le cose stanno migliorando. Ma io ancora non esco molto di casa».

dall’inviato Valerio Baroncini