Bologna, 3 giugno 2014 - Ci sono cervelli che non scappano. Vanno all’estero, prendono appunti e tornano con la voglia di cambiare le cose. Come il bolognese Matteo Vignoli. Classe 1979, una laurea con lode ed encomio in Ingegneria gestionale all’Alma Mater, primo lavoro con il colosso americano Procter & Gamble, dottorato a Padova e ora ricercatore nell’ateneo di Reggio Emilia. Nel 2010 il suo momento epifanico: un anno a Stanford, nell’Eldorado dell’innovazione.

La California come ha cambiato la sua vita?
«Un giorno avevo un’ora libera prima di un convegno, così mi sono imbucato a un workshop sul ‘design thinking’. Lì ho scoperto che ingegneria e arte erano una cosa sola. E’ stato come se la mia anima artistica, che avevo sacrificato per una carriera sicura, si fosse ricongiunta con la mia anima razionale».

Design thinking: sarebbe?
«Applicare metodologie di design per risolvere problemi e creare prodotti. E’ un ingegnere che pensa come un designer, mettendo i bisogni della gente al centro della progettazione. I grandi artisti sono grandi ingegneri e viceversa. Questo connubio c’è sempre stato nella storia. Questa mentalità nella Silicon Valley ha formato le generazioni che oggi ci permettono tutte le innovazioni che usiamo».

Già, nella Silicon Valley. Ma qua siamo in Italia…
«Ho pensato che in Italia, piena di creativi, ci fosse terreno fertile per il design thinking. Così, stando a Reggio, ho pensato di fonderlo con il metodo educativo reggiano ed è nata l’educazione all’innovazione».

Sarebbe?
«L’università ti insegna quello che c’è già. Io educo i ragazzi a innovare, a creare soluzioni per quello che ci servirà domani. Il metodo reggiano mi è servito perché insegna a coinvolgere le famiglie e la società. Ho iniziato a invitare le famiglie e gli amici ai corsi, per far vedere loro il lavoro dei ragazzi: questo ha generato fiducia. La fiducia fa cambiare le cose. La scuola non deve educare solo il ragazzo, ma anche la società intorno».

Poi, però, c’è il problema-lavoro. Difficile convincere le famiglie a lasciare che i ragazzi investano nell’innovazione senza garanzie.
«Se le aziende vogliono i miei studenti, devono pagarli. Se il loro lavoro non è retribuito, significa dare valore zero a quel lavoro. Non sono le imprese che insegnano ai ragazzi: è l’esatto contrario».

Molti imprenditori potrebbero sobbalzare.
«E’ sbagliata la mentalità italiana. I primi sei mesi di un ragazzo dentro un’impresa sono i migliori per l’impresa perché il giovane con gli occhi dello stupore vede tutto quello che non va nell’impresa. Non deve fare le fotocopie. Le capacità cognitive calano con l’età. Se li tieni un anno non pagati, li hai già bruciati».

Bologna e l’innovazione: a che punto siamo?
«E’ un terreno fertile che ha resistito alla crisi. Nel 2013 le aziende erano 18mila, come nel 2008: chiuse tante, aperte tante altre. Questo in altre città non è successo. Qui sta emergendo un fenomeno e Working Capital (il progetto Telecom per l’innovazione, ndr) è un faro che si è acceso su questo fenomeno. Poi c’è l’acceleratore dei Giardini Margherita, c’è Fico e ci sono tante altre realtà».

Cosa manca allora?
«Manca la fiducia della città. L’innovazione va messa al centro del dibattito cittadino. La società è pronta: basta pensare che qui uno degli assessorati più strategici è affidato a un 35enne (Lepore, Economia Turismo e Agenda digitale, ndr). Ma il rischio è che ognuno vada da solo, che si crei una sfida di cortile che non gioverebbe a nessuno. Bisogna uscire dalla logica del ‘è merito mio’».

Dove si può arrivare?
«A Bologna e in Emilia si può replicare la Silicon Valley. Anzi la si può superare. Non abbiamo nulla da invidiare: dal punto di vista della produzione possiamo fare tutto; abbiamo competenze dal punto di vista del software, aziende all’avanguardia nel mondo. Quarant’anni fa la Silicon Valley non esisteva: poi con l’università e la fiducia tutto è cambiato».

Progetti futuri?
«A settembre partirà un progetto con il Cern. Per il futuro, invece, ho un sogno: abbattere le barriere degli atenei di questo territorio e creare un’Università dell’Emilia Romagna».

Gianmarco Marchini