"Al Pilastro dovevano uccidere i carabinieri"

Ludovico Mitilini, fratello di Mauro trucidato nell’agguato del 4 gennaio 1991: "Tante mancanze nelle indagini, ora la Procura vada avanti"

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di Nicola Bianchi

"I Savi pianificavano tutto, anche le rapine agli inermi negli uffici postali. E non lo fecero quella notte al Pilastro? Impossibile". Ludovico Mitilini, il 4 gennaio 1991 perse un fratello: Mauro. Valoroso carabiniere come i colleghi Otello Stefanini e Andrea Moneta.

Quello dei Savi contro la pattuglia fu un agguato pianificato?

"Certo. Attaccare un’auto dei carabinieri comportava un livello di rischio altissimo, forse il più elevato di tutte le loro azioni criminali".

Mauro, Otello e Andrea, dunque, dovevano essere uccisi?

"Ho forti sospetti. La criminalità organizzata, quando viene sorpresa, spara per guadagnarsi la fuga. Quella notte, invece, i Savi portarono a termine la loro operazione di morte e dopo averli colpiti una prima volta, mirando all’autista per disarticolare la pattuglia, scesero e gli diedero il colpo di grazia".

Lei e tanti altri siete pronti a depositare un esposto per fare piena luce sulle molte ombre delle vecchie indagini. Quali gli errori?

"Primo: non fare accertamenti a tappeto su tutti i possessori di fucili AR70, una delle armi usate dai Savi. Due li aveva Roberto, poliziotto, uno dei quali lo consegnò spontaneamente ai colleghi della Mobile a pochi giorni dall’eccidio del Pilastro".

Quello, ovviamente, non utilizzato per il massacro...

"Esattamente. Gli ’AR’ in Emilia Romagna all’epoca erano 31, come risulta da un accertamento richiesto dall’allora dirigente della Mobile, Giovanni Preziosa. Il quale chiese alla Procura di procedere con una perizia balistica con tutte le 31 armi, ma si decise diversamente. Poi c’è la pista Pesaro, abbandonata".

Si spieghi.

"Lì i carabinieri identificarono un uomo somigliante ad Alberto Savi, durante un’indagine fatta in un poligono di tiro, quale uno dei killer. La pista però fu abbandonata".

E c’è il misterioso depistaggio del brigadiere Domenico Macauda.

"Perché lo fece? Che interesse aveva? Mai chiarito".

Tra i misteri c’è pure la telefonata di Marino Bersani, padre della superteste Simonetta, con l’amico Enzo, carabiniere. Che idea si è fatto?

"Enzo e la moglie sono figure importanti che spero gli inquirenti abbiano già sentito nell’inchiesta aperta un anno fa. Lei, a un certo punto, dice al marito di fare ’piano’. Doveva nascondere qualcosa? La trascrizione della telefonata fui io a trovarla (non venne presa in considerazione nel processo ai Santagata, ndr) e a consegnarla all’ex pm Giovannini che recuperò l’originale tra gli atti".

In passato parlò di testimonianze importanti. Quali?

"Durante gli agguati ai campi nomadi, una donna disse chiaramente di aver riconosciuto Roberto come uno degli assalitori. Altri, invece, parlarono di sei banditi durante quei blitz. Nessuno fu creduto. Altro caso strano è l’armeria di via Volturno".

Colpita in pieno giorno...

"Alle 11 del mattino, in centro a Bologna. Una follia. Un rischio altissimo. Per cosa? Per due pistole? No. Potevano benissimo comprarle o rapinare un’armeria di periferia all’ora di chiusura e poi avevano già il caricatore per quell’arma. Un’esecuzione pianificata, non una rapina finita male".

Tornando al Pilastro, suo fratello qualche mese prima di essere ucciso le parlò di aver già fatto una vigilanza davanti alle ex scuole Romagnoli, come ordinato dal questore?

"A novembre. La vigilanza doveva essere fissa, invece nel momento in cui la pattuglia si spostò, perse anche la visibilità dell’obiettivo. Deve essere successo qualcosa, qualcuno potrebbe averli attirati in via Casini. Quella sera, poi, vi fu una sfortunata circostanza: la pattuglia restò sola al Pilastro, poco prima dell’eccidio due volanti, tra cui quella del Pilastro, vennero impiegate altrove, mentre l’equipaggio dei carabinieri inviato a Borgo Panigale per effettuare altro intervento non meglio specificato al momento".

Come per la Strage del 2 agosto, anche dietro alla Uno Bianca c’erano i mandanti?

"Non lo escludo, è la storia d’Italia che ce lo insegna consegnandoci tra i mandanti persone insospettabili e autorevoli. Con l’esposto chiederemo che si vada fino in fondo, di errori non se ne possono più commettere".

Con la lettera mostrata il giorno delle celebrazioni, lei, Moneta e Stefanini vi siete scagliati contro chi sostiene che la verità è questa e basta.

"Se esistono oggi ancora dei dubbi, vanno valutati; noi non abbiamo la presunzione di avere certezze. Vogliamo solo che vengano chiariti alcuni aspetti".

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