Botte alla moglie Condannato marito-padrone

Tre anni e 4 mesi, ma il pm aveva chiesto sei anni. Abusi sessuali anche davanti al figlioletto

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Tre anni da incubo. Tre anni di botte, abusi, violenze sessuali anche davanti al loro figlioletto di poco di un anno. "Quando mio marito ha iniziato a fare uso di cocaina – disse lei, giovane marocchina – il suo atteggiamento è cambiato". Ed è iniziato l’inferno che ieri ha portato il gup Sandro Pecorella a condannare in abbreviato a 3 anni e 4 mesi il marito, anch’egli marocchino di 34 anni, per violenza sessuale.

Una vicenda drammatica che arriva da Castello d’Argile tra due ex coniugi, fidanzati per sette anni e sposati da tre. Nel processo, con l’imputato difeso dall’avvocato Donata Malmusi e per il quale il pubblico ministero Stefano Dambruoso aveva chiesto una condanna a 6 anni, la vittima non si è mai costituita parte civile, rimettendo la querela che fece partire le indagini. "Cosa tipica di queste vicende", sottolinea il gup nelle cinque pagine di motivazioni contestuali.

Il primo contatto con i carabinieri risale al 15 marzo dello scorso anno e ciò che uscirà dai racconti della donna è una storia fatta di violenze e soprusi. Davanti ai militari di Castello d’Argile e di San Giovanni in Persiceto, lei si era presentata con tumefazioni all’occhio destro e al labbro inferiore. "Segni evidenti di violenza", scrive il giudice. "Mi picchia da tre anni, aiutatemi", dirà lei in lacrime durante la sua prima testimonianza. Per poi aggiungere che da tempo il marito aveva iniziato ad abusare di cocaina mostrandone le prove: un sacchetto zeppo di polvere bianca che l’imputato aveva nascosto in camera da letto e un piatto con una banconota e residui della stessa sostanza dentro al forno.

Il marocchino finì in manette in flagranza di reato per detenzione a fini di spacciò e in contemporanea iniziò anche l’indagine sulle violenze in famiglia. Che arrivavano la sera, disse ancora la vittima, quasi sempre prima di andare a letto quando l’uomo assumeva cocaina. Sempre in quei frangenti la stessa era obbligata ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà, spesso pure davanti agli occhi innocenti del bambino. Non poteva uscire, nemmeno per fare la spesa, lui la segregava dentro quelle quattro mura. Addirittura era stata costretta a nascondere un vecchio cellulare nel pannolone del figlio per non essere scoperta e utilizzarlo in caso di emergenza. Ieri la fine dell’incubo con la condanna.

Nicola Bianchi

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