De Masi: "Il lavoro non è più il centro della vita"

Il sociologo e la mancanza di manodopera: "Col Covid si rivaluta il tempo libero. Le imprese alzino i salari e riducano gli orari"

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di Rosalba Carbutti

Addio alla società ’lavoro centrica’. Il Covid ha cambiato lo schema e sempre più persone preferiscono avere a disposizione maggior tempo libero anche a fronte di una busta paga più leggera. Che fare, allora, con l’allarme lanciato sul Carlino dal mondo del turismo, alla ricerca disperata di manodopera? Una ricerca che riguarda anche piccole e grandi aziende sempre più a corto di giovani disposti a turni e orari impegnativi. Per il sociologo Domenico De Masi, (che sul tema ha scritto un volume di 800 pagine, "Il lavoro nel XXI secolo" edito da Einaudi) la risposta è semplice: "Aumentare le retribuzioni e lavorare meno".

Ma così la produttività non calerà?

"I datori di lavoro devono rendersi conto che il paradigma non è più lo stesso. Il lavoro non è più quello da cui far dipendere tutta la nostra vita, ma ne diventa solo una parte minima".

Non crede che a Bologna come altrove in Italia i giovani si siano ’seduti’, magari accontentandosi del reddito di cittadinanza?

"Macché. Che cosa ci fa un giovane con 200, 300, 500 euro di reddito di cittadinanza? Nulla. Il tema è un altro. In un mercato capitalista c’è un equilibrio tra domanda e offerta. Se c’è squilibrio significa che chi offre lavoro non paga abbastanza. I giovani non si abbassano a fare certi lavori? E meno male. Del resto l’Italia è l’ottavo Paese al mondo per prodotto interno lordo: in un Paese ricco sono dinamiche normali".

Lei dice che il lavoro non è più così importante... Ma in fabbrica o in ufficio si sta otto ore al giorno.

"Sì, ma visto che moriamo più tardi, anche oltre gli 85 anni, si calcola di lavorare 70mila ore a fronte di 750mila ore di vita. In pratica, dedichiamo alla nostra occupazione solo un decimo della nostra esistenza. Se andiamo indietro e pensiamo ai nostri trisavoli, ad esempio, su 400mila ore di vita ne passavano la metà a lavorare. Spesso si finiva di lavorare e si moriva. Oggi si sta in pensione anche venti anni...".

Ma non è paradossale che si parli tanto di crisi e poi molti rifiutino alcune occupazioni?

"Il problema del nostro Paese, presente a Bologna e in tutte le città italiane, è che lavoriamo troppo. Noi arriviamo a 1.800 ore l’anno, un tedesco ha una media di 1.400. Facendo un rapido calcolo: qui da noi si lavora un 20 per cento in più per guadagnare un 20 per cento in meno. Diciamo che i giovani se ne sono accorti...".

Insomma, non c’è più la disponibilità a sacrificarsi?

"Il Covid ha accentuato una tendenza che c’era già. Ma non solo qui da noi... Lo dimostrano parecchie ricerche: sempre meno giovani sono disposti a rinunciare a relazioni amicali e famigliari e, quindi, ad accettare un aumento dell’orario di lavoro".

A questo punto, la soluzione è lavorare meno, lavorare tutti?

"Redistribuire il lavoro risolverebbe anche il problema della disoccupazione. La conferma arriva dal confronto con gli altri Paesi Ue: la media di ore lavorate in Germania a settimana è 32 coi metallurgici che arrivano a 28; 35 in Francia, 40 ore in Italia. Da qui, ripeto: i datori di lavoro pensino al salario minimo garantito e a una riduzione dell’orario di lavoro. A quel punto la manodopera sarebbe più facile da trovare...".

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