"Diciotto corpi a terra. Erano la mia famiglia"

Eccidio di Marzabotto, 76 anni dopo. Il ricordo di un orrore è ancora negli occhi dei sopravvissuti Ferruccio Laffi e Cornelia Paselli

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di Gianni Leoni

"Per mezzo secolo sono stato zitto. Poi ho deciso di parlare. Ai giovani soprattutto", dice Ferruccio Laffi, 92 anni.

"I morti: erano sopra di me, li vedo ancora, come se fosse ieri. Voglio scrivere un libro perché nessuno dimentichi", dice Cornelia Paselli, 95 anni.

Due sopravvissuti alla strage (con la signora Dainesi), ultime voci in diretta da un massacro.

Laffi vive da solo, è sordo e parla in dialetto. Ricorda e si commuove. Ricorda e la voce prende una carica di rabbia. Dalla terrazza di casa, a Marzabotto, punta il dito verso il monte venato dai dossi grigiastri dei calanchi, prende fiato e dice: "E’ successo lassù. Li ho visti subito: 18 corpi stesi per terra, tra le galline che beccavano qua e là. Che dovevo fare? Li ho seppelliti alla meglio, con l’aiuto di qualcun altro. Nel ’47 li ho disseppelliti per i funerali".

Laffi, un tempo, stava a Colulla di Sotto, quattro case tra i calanchi e la macchia, con i genitori, sei fratelli, le nuore, i cognati, i nipoti. Famiglia di mezzadri, podere a grano, vita dura, ma serena.

"Quel giorno di fine settembre vedemmo i tedeschi scendere dalla montagna. Perlustravano la zona in cerca di uomini. Non c’era altra scelta: bisognava nascondersi tra i calanchi. Un mio fratellino, 11 anni, venne scoperto. Altri si salvarono. Si sentivano spari, ma non li collegai con casa mia. Quando tornò il silenzio ripresi la via per Colulla: i morti, 14 miei famigliari e 4 conoscenti, erano sull’aia. Altri due corpi, quelli di casa Zebri, a Colulla di Sopra".

Una pausa, gli occhi di Laffi si accendono di lacrime e puntano verso i calanchi sul monte. "Non c’è più la casa, ma io la vedo ancora". Da Colulla in fuga verso l’orizzonte. "Mi presero a Colle Ameno. Nessuno può immaginare come si vive senza lavarsi per quattro lunghi mesi e con gli stessi abiti per quattro lunghi mesi".

Anche Cornelia Paselli vive da sola, a Bologna, con l’assistenza di una collaboratrice perché le gambe non hanno più forza, e la figlia che abita di fronte. Quel giorno… "Quel giorno mio padre disse: rifugiatevi nella chiesa di Casaglia. Il parroco voleva recitare il rosario. Eravamo una trentina, con la mamma, i miei fratelli, una di 15 anni e due gemellini di 10. Lucia Sabbioni, un’amica, faceva la spola con l’esterno e a un certo punto urlò: ‘i tedeschi, ci sono i tedeschi’".

E i tedeschi arrivarono, ricorda Cornelia Paselli. "Parlavano col parroco e cercai di interpretare i loro gesti. Ci portarono al cimitero, durante il cammino si vedevano case in fiamme, volevo gettarmi in un dirupo, ma incrociammo un’altra pattuglia. Pioveva. Al camposanto c’era la mitragliatrice. Eravamo un centinaio, allineate. Volevo spostarmi verso il centro della fila, ma tutte spingevano e rimasi a sinistra, scoperta. A un certo punto un militare lanciò una bomba: lo spostamento d’aria mi proiettò in una specie di capriola, testa a terra e gambe in aria, quasi al centro della formazione. Poi le raffiche, e il sangue dei morti sulla faccia, sulle gambe, dappertutto. Non ero ferita, non riuscivo a piangere né a urlare. Sono svenuta. A un tratto, la voce della mamma: Cornelia, Cornelia… Aveva le gambe maciullate. ‘I gemellini sono andati’, disse. Avevo portato con me una borsa con un cappottino nuovo, alla moda. Ne feci delle strisce per fermare il sangue. E corsi, tra rovi e sassi, a cercare aiuto. Mi spararono dall’alto anche mentre attraversavo il fiume. Vedevo l’acqua ribollire colpita dai proiettili. Spari e morti, morti e spari. Cercai la casa di due contadini ai quali mio padre aveva affidato un agnellino. Lo aveva preso per la lana e per i giochi dei gemelli. Era buono, tenero e affettuoso. Se lo chiamavi correva. Eccola la casa, immersa nel silenzio. L’agnellino non belava. Vidi i contadini: morti. E l’agnellino: sgozzato. E allora, per la prima volta, cedetti al pianto. Tutto era finito. Se n’era andato il simbolo della nostra felicità".

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