Scomodo, emarginato, sospettato di follia, dimenticato per lunghi secoli. E addirittura, secondo San Girolamo, suicida con un filtro d’amore. C’è stata una pervicace congiura del silenzio attorno alla figura di uno dei pensatori più contemporanei della Roma imperiale, Tito Lucrezio Caro, l’autore del De Rerum natura, il filosofo che ‘aveva il futuro nel sangue’. A lui dedica un saggio denso e intrigante Ivano Dionigi, latinista, ex rettore e professore emerito dell’Alma Mater. Il libro si intitola L’apocalisse di Lucrezio. Politica, religione e amore, è edito da Cortina e viene presentato oggi alle 18,30 all’auditorium del Mast con una lectio dell’autore.
Professore, come mai fra i tanti classici lei ha da sempre avuto una predilezione per Lucrezio?
"È una passione antica ed è stato l’oggetto della mia laurea. Ho amato gli autori che si muovono nel segno della contraddizione ma, mentre Seneca è ambiguo e compromissorio, Lucrezio porta un messaggio rivoluzionario nella società romana. Roma, regno della tradizione e del notum, guardava con sospetto l’homo novus contrapponendolo al nobilis. Non a caso, una personalità come Cicerone ne aveva fatto le spese".
Qual è il suo messaggio deflagrante?
"Chiede di spazzare via religione e politica. La prima, dice il filosofo, è inutile, falsa e sacrifica gli uomini; la seconda è dannosa in quanto fonte di avidità e ambizione, passioni alimentate dalla paura della morte. La presenza di un simile pensatore, in una città che del culto degli dèi e dell’arte di governare aveva fatto i proprio capisaldi, sembra un errore anagrafico. Non a caso il De rerum natura sparirà fin quando non verrà riportato alla luce nel 1417 da Poggio Bracciolini".
Perché questo poema, che lei definisce ‘cattedrale verbale’, ha cambiato la cultura europea?
"Le influenze non si contano e vanno da Giordano Bruno a Montaigne fino all’illuminismo. E poi la scienza seicentesca, Botticelli, Macchiavelli, Voltaire, Goethe. Anche nella letteratura italiana esistono importanti riferimenti, da Foscolo a Leopardi fino a Calvino. L’attualità di Lucrezio sta nell’analisi del rapporto con la natura e nella critica a un progresso tecnico che porta al regresso morale. Ma soprattutto lui rivendica una visione cosmocentrica contestando l’idea gerarchica dello stoicismo che poneva l’uomo al centro dell’universo. Siamo tutti composti dagli stessi atomi, tutto è omogeneo, nobile e in relazione. Per questo il poema è, per dirla con Dante, un universo che si squaderna dove ogni singola lettera equivale agli atomi e le parole sono speculari alle cose".
Nel titolo si parla anche di amore. Lucrezio ha espresso idee fortemente anticipatrici rispetto al pensiero di Lacan?
"È così. Smaschera ogni realtà, anche l’amore, sostenendo l’impossibilità del sesso, cioé la riduzione di due corpi in uno. Paragona il rapporto erotico al corpo a corpo nel campo di battaglia e sostiene che la passione è mostruosa perché toglie tranquillità: l’innamorato, come l’appestato, soffre di un’angoscia straziante".
Perché lei usa nel titolo il termine ‘Apocalisse’?
"Perché apocalisse allude non solo alla dissoluzione del mondo, anzi degli infiniti mondi possibili, ma a una ’rivelazione’, alla grande rivelazione laica che contempla la visione e la scienza della natura. Lucrezio indaga i lati negativi e oscuri della vita e per riportarli dalle tenebre alla luce. In lui l’unica forma di ‘pietas’ è contemplare il mondo in maniera serena. Lo potremmo definire l’apostolo della ragione".