REDAZIONE BOLOGNA

Diritti: "La memoria sia attiva, non nostalgica"

Il regista all’Odeon e al Lumière con ‘Lubo’, sugli Jenisch in Svizzera. "A Bologna un’energia strepitosa. Felice per il Modernissimo"

Diritti: "La memoria sia attiva, non nostalgica"

Il vento ha rifatto il suo giro portando Giorgio Diritti verso nuove storie di vite ai margini, oppressione e diversità. E nessun luogo può sentirsi immune da un passato di ombre, persino la Svizzera in cui, dagli anni Trenta, iniziò una violenza etnica verso gli ’zingari bianchi’, gli Jenisch, la terza più grande popolazione nomade d’Europa. Un’altra pagine nera e poco nota della nostra storia – migliaia di figli furono strappati con la forza alle famiglie, per essere disseminati fra collegi, istituti ’educativi’, manicomi, famiglie adottive – che il regista bolognese ha raccontato in Lubo, con Franz Rogowski nei panni del protagonista che, arruolato a forza nell’esercito elvetico, scopre che la moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di prendere i figli. Una tragedia che sarà il motore della ricerca. Questa sera Diritti incontrerà il ’suo’ pubblico alle 20 all’Odeon e alle 21 al Lumière.

Diritti, come si è accostato a questa storia?

"Leggendo il libro Il seminatore di Mario Cavatore ho sentito l’urgenza e la necessità di un film: quello di cui si parlava aveva sfaccettature forti, interessanti per la società e i rapporti fra gli uomini. Mi ha colpito soprattutto che questi fenomeni di discrimazione fossero avvenuti in Svizzera, che nell’immaginario è il Paese del cioccolato, perfetto, pulito. Questo, evidentemente, è il segno di un male che si nasconde dappertutto".

Come ha proceduto?

"Ho sviluppato un percorso differente rispetto al libro. Mi sono concentrato sulla vita del protagonista, sulla ricerca di questi minori scomparsi e la sua dimensione di uomo solo che prova a rifarsi una vita, arrabbiato col mondo. Ho toccato tutti i sentimenti che probabilmente si celano in chiunque si trovi in una condizione di ingiustizia. Putroppo il film esce in un momento in cui siamo circondati ancora da sentimenti di conflitto e di difficoltà dell’uomo a convivere con l’altro. È un tema sottotraccia, che caratterizza tutto il mio lavoro: la diversità deve essere interpretata come ricchezza".

Nel film si fa riferimento a "una delle tante guerre idiote che rubano una vita". Siamo nel ’39, eppure sembra oggi.

"Purtroppo sì ed è una cosa che mi fa rattristare profondamente: sembra che ci sia qualcosa di insito nella specie umana per cui resiste questa ansia di sopraffare".

Il tema della memoria è ancora legato al suo cinema.

"Una memoria non celebrativa e nostalgica, ma attiva, come meccanismo che ci porti a guardare il presente".

Anche il film è stato un po’ nomade.

"Nel senso che abbiamo girato in varie parti d’Italia fra Domodossola, Laghi di Verbania, Svizzera, Trento, Rovereto... Tra l’altro, è anche un film in costume, che parte dal 1939 e finisce praticamente negli anni Sessanta: aveva bisogno di ambienti e situazioni che fossero credibili".

Com’è per lei presentare il film a Bologna?

"É come fare una festa in casa, nella città in cui vivo e che è parte ogni giorno del mio lavoro, della mia creatività. E del mio percorso: L’uomo che verrà è legato a tutto quello che ho respirato qui, alle persone che ho incontrato. Bologna è una città straordinaria di cinema, anche per l’energia strepitosa della Cineteca. E poi sono felicissimo che stia andando a compimento il Modernissimo: è una cosa di cui dovremmo andare, in futuro, orgogliosi".

E a Bologna la riporteranno altre storie?

"Ogni tanto ci penso. Ma alcune storie devono prima maturare, lievitare".

Letizia Gamberini