Dolore e amicizia al ritmo dei battiti del cuore

Oggi in SalaBorsa Laura Imai Messina presenta il suo ultimo libro: "L’archivio di cui parlo esiste davvero. Fu progettato da Boltanski"

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di Letizia Gamberini

C’è un luogo, nel sud-ovest del Giappone, che custodisce un archivio in cui sono catalogate le pulsazioni del cuore di migliaia di persone. È ’L’Isola dei battiti del cuore’ (Piemme), nuovo romanzo di Laura Imai Messina, che l’autrice di ’Quel che affidiamo al vento’, ormai un cult, presenta oggi in SalaBorsa (alle 18, con Paola Scrolavezza). La scrittrice, che durante le Olimpiadi ci ha raccontato nelle sue ‘pillole’ sulla Rai un Paese chiuso al mondo, riparte dall’amicizia fra un ‘pesce-bambino’ e un illustratore con una cicatrice esterna, sul petto, e tante dentro di sé. È un libro potente e delicato, una bussola per ritrovarsi, accettando che senza dolore non si è vivi, che si ama solo rischiando.

L’archivio esiste davvero ed è stato progettato non a caso dall’artista della memoria Christian Boltanski a Teshima. "Come la cabina del telefono del vento, non è una meta turistica immediata, ci vuole intenzione per visitarla – spiega Imai Messina –. Arrivando in aereo da Tokyo, bisogna scendere a Takamatsu, prendere un autobus, un battello e un altro bus che si inoltra fra risaie e colline. Infine, c’è un ultimo tratto a piedi. È una distanza più temporale che a livello di chilometri: c’è dell’attesa fra un passaggio e l’altro".

Un cuore fa dokin quando ci si innamora, doki doki per l’emozione. Esiste una sindrome di tako-tsubo o del cuore infranto. Anche in questo romanzo il giapponese, con il suo ventaglio di suoni e parole, racconta le sfumature del reale.

"La lingua giapponese è importante in ogni libro che scrivo perché, a livello linguistico, è la linea parallela che accompagna la mia vita. Vivo nell’italiano, ma cucito insieme al giapponese. In questo caso lo metto al centro di una relazione fra i due protagonisti. E poi c’è l’aspetto delle onomatopee legate al suono del battito del cuore, toku toku, baku baku... Nella lingua, a livello macro, c’è una cultura, a livello micro c’è il sentimento di una persona".

Torna l’elaborazione del lutto. Come si fa a toccare un tema così complesso con mano leggera?

"Il Giappone mi ha insegnato una modalità più lieve di maneggiare il tema della morte, non è cupo e respingente come in Occidente. E mi ha insegnato a dosare l’emozione per non correre il rischio di confondersi, come se ci fosse un ’troppo’ che non ci fa capire bene cosa stiamo sentendo. D’altra parte qualunque esperienza, di lutto o vissuto negativo, non lo si può rifiutare pensando di ritagliarsi solo la parte migliore della vita. Come scrivo, se si silenzia il dolore, viene via anche la gioia. Ci vuole coraggio e consapevolezza di questa connessione forte fra i sentimenti".

Sempre centrale il bambino, che sembra aiutare l’adulto a vedere meglio le cose.

"Non ho voluto edulcorare l’infanzia. C’è questa illusione per cui il bambino debba per forza essere felice, ma è anche malinconico, soffre. La magia dell’infanzia sta in quel periodo, brevissimo, in cui la mente funziona in una maniera diversa dall’adulto. Se quest’ultimo non cerca di ridimensionarla, renderla logica, allora può essere una grande risorsa: in questo senso è una magia, qualcosa con poteri particolari".

Il romanzo è uscito proprio nel giorno in cui il Giappone ha riaperto al turismo.

"Sono contenta e curiosa di vedere cosa accadrà, ho vissuto in una sorta di bolla in questi anni di pandemia. Mi sono goduta anche il silenzio, la mancata folla, però su larga scala va considerato il danno soprattutto per i settori legati al turismo. Spero che i visitatori continuino ad affiancarsi con misura e dolcezza a questo Paese che è felice di accogliere di nuovo. Credo che il Giappone faccia bene alle persone, dà l’idea di come si potrebbe vivere se si fosse un po’ più rispettosi delle regole, più uniti in un progetto comune".

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