
Marco Forte è un magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Bologna
Nel contrasto alle mafie “non riusciamo a far capire alla politica che non fa un dispetto a noi se non ascolta certe cose ma ai cittadini, questo vale per tutti, non voglio fare un discorso su questo Governo o il precedente o quello prima”. Ad esempio sono convinto che “l’Emilia-Romagna richiederebbe il raddoppio sia delle forze di polizia sia della Dda per poter fare dignitosamente la prevenzione che ci viene richiesta”. Lo afferma alla Dire Marco Forte, magistrato della Dda di Bologna, che ha partecipato a un convegno promosso da Libera nel capoluogo emiliano. “Pensate a quanto è grande questa regione, pensate al suo peso economico: credete davvero – dice Forte – che quattro pm possano coprire un territorio che va da Piacenza a Rimini? Già su Bologna facciamo fatica a tenere in piedi un’indagine prima di poterne aprire un’altra, perché il lavoro dura mesi e a volte anni”.
Non è un caso che, già nell’Ottocento, Bologna e il suo distretto fossero terra di processi per mafia. Allora nel pieno della rivoluzione industriale (che portava soldi e trasformazioni nella società), oggi nel pieno di quella dell’intelligenza artificiale (che porta altrettanti denari e stravolgimenti, e in dote anche un ‘carico’ di cybercriminali assoldati dai clan). Non è un caso che qui, sotto le Torri, un boss come Nicolino Grande Aracri passeggiasse bello e pasciuto al sole sotto San Petronio, prima della deflagrazione dell’inchiesta Aemilia. Non è un caso che qui avesse ‘casa’ la fiscalista amica dei malavitosi e che le Aemilae (al plurale) non finiscano. Non è un caso che Modena, Reggio, ma anche la Riviera siano ormai terra di costante infiltrazione (pensate agli anticorpi di Cesenatico). Non è un caso che, negli ultimi due anni, la Dda e la Dia abbiano sequestrato milioni e milioni di euro e registrato un record di interdittive in una terra ferita dall’alluvione e dunque in ricostruzione.
Non è un caso, dunque, che il nuovo procuratore capo di Bologna sia Paolo Guido, un uomo che ha fatto della lotta alla mafia una ragione di vita professionale e non solo. Il Consiglio superiore della magistratura ha dimostrato di guardare oltre le correnti e dato un’indicazione chiara: non si potevano ignorare – come il Csm fece invece con Giovanni Falcone, ma erano altri tempi e un’altra storia – le inchieste prima sulle cosche palermitane e poi trapanesi, pensate alla cattura dell’ex latitante Matteo Messina Denaro.
Guido ora dovrà gestire quella che Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, ha recentemente definito come la sempre più visibile mafia... invisibile: “Man mano che passano gli anni, è sempre più difficile vedere le mafie perché sono sempre più come noi – ha detto Gratteri –. La differenza sostanziale è che hanno tanti contanti. E spessissimo i mafiosi li vediamo seduti al tavolo con imprenditori, politici, pubblici amministratori e uomini delle istituzioni. Le mafie votano e fanno votare. Ma non hanno ideologia: puntano sul candidato che pensano possa dar loro maggiori opportunità. Poi il mafioso busserà quando ci sarà bisogno di una variante al piano regolatore, di un cambio di destinazione d’uso o di lavori in somma urgenza”.
Su queste basi nasce la richiesta del pm Marco Forte di cui vi parliamo. Gli anticorpi qui ci sono? Sì, ma non basta. Ha senso raddoppiare la Dda? Sì. E’ sexy parlare di mafie in Emilia-Romagna? No. E’ davvero perso perso quell’aspetto militare, truce e violento delle mafie per diventare imprenditrici? No. Il procuratore Francesco Caleca di recente, parlando di un’inchiesta (Ten) a Parma, ha detto che “la sostanza profonda della capacità intimidatoria permane, venendo realizzata concretamente. Anche con disponibilità di armi”. La sfida dunque è doppia: fermare l’aspetto economico delle mafie; ed evitare la recrudescente violenza ottocentesca.