Lui la butta sul ridere: "Magari qualcuno che non mi conosce mi scambierà per un neomelodico". E invece dietro alle canzoni di Enzo Moscato, che a 74 anni resta uno dei teatranti più intriganti e innovativi degli ultimi decenni, ci sono percorsi drammaturgici e approfondimenti filologici di tutto rispetto. Si intitola ‘Modo minore’ lo spettacolo che stasera alle 21 va in scena in piazza San Francesco nell’ambito della rassegna estiva ormai all’epilogo: con Moscato, in veste di interprete e regista, un ensemble cameristico di quattro elementi. Arrangiamenti e direzione musicale di Pasquale Scialò. In scaletta canzoni degli anni ‘50,’60 e ‘70 legate da un’idea di ‘musica inclusiva’ che spazia dai brani dei vicoli napoletani ai pezzi da night, dai testi d’autore alle hit internazionali. "Lo spettacolo ha un testo definito e una scaletta precisa – spiega –. Ci sono canzoni inedite, riletture di classici, brani riscritti e contaminati. Parlo dell’esperienza e della percezione del cantare". Come mai un uomo di teatro come lei sente la necessità di questo affaccio musicale? "Sono un drammaturgo cantante che ha inciso ben cinque dischi diventati tutti spettacoli. Il primo, ‘Embargos’ del ‘94, vinse il premio Ubu. Ho cantato anche nel film ‘Libera’ di Pappi Corsicato. Qui racconto le canzoni di un trentennio che più mi hanno colpito, arrivando perfino a ‘Bang bang’ di Sonny and Cher o ‘La ballata del Cerutti’ di Gaber. L’effetto, fra lingue canore contaminate, è spiazzante". Perché ‘Modo minore’? "Perché questa è la mia maniera di avvicinarmi al complesso e giocoso impero canoro. La marginalità fa parte dell’estetica e ha valori positivi nell’universo napoletano. E comunque la musica leggera ha una profondità di tutto rispetto. Definisco la mia scrittura teatrale melodica e quindi il salto nel mondo canoro non è stato violento". Si è sempre detto che i suoi testi teatrali uniscono la lingua napoletana alle suggestioni di Genet e Artuad. E’ vero? "Faccio parte della nouvelle vague partenopea nata negli anni ‘70 con Annibale Ruccello e Manlio Santanelli: ci sentivamo lontani da Eduardo De Filippo che raccontava la piccola borghesia e vicini a Raffaele Viviani che stava dalla parte del popolo. E’ vero, i miei primi testi si ispiravano soprattutto ad Artaud in una strana combinazione. Ho sempre cercato di mantenere le distanze da certi autori napoletani". Perché nella scena contemporanea la parola non ha più una sua centralità? "Perché cambia il modo di scrivere per il teatro e di guardalo, perché pochi ricordano la lezione di Leo de Berardinis e Carmelo Bene e perché certa drammaturgia è forse anziana. Ho fatto esperienze con Mario Martone e Antonio Neiwiller e per me il testo è sempre rimasto al centro". Claudio Cumani