"Gelli, mandante dell’orrore"

Le carte della Procura generale: "Fu lui a dare un milione ai Nar"

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di Nicola Bianchi

A tessere la tela dell’orrore sarebbe stato il ’burattinaio’ o ’Belfagor’, come definito di volta in volta per il coinvolgimento diretto o indiretto nei maggiori scandali dell’Italia repubblicana: Licio Gelli, il venerabile maestro della P2. Sarebbe stato lui, "mandante e finanziatore", a guidare la mano dei Nar nell’organizzazione, trasporto e posizionamento della bomba che il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna provocò 85 vittime e oltre 200 feriti. Lui, con Umberto Ortolani, l’eminenza finanziaria della loggia massonica, e il potente prefetto Federico Umberto D’Amato, l’uomo del mistero a capo dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno, per i magistrati della Procura generale avrebbe deciso, organizzato e finanziato la strage. In concorso con un quarto uomo, il giornalista piduista ex direttore del ’Borghese’, senatore dell’Msi Mario Tedeschi "che coadiuvò D’Amato nella gestione mediatica della strage" e nei successivi depistaggi. Tutti quanti oggi morti, ma sono i primi a comparire nel procedimento 22018 della Procura generale sui cosiddetti mandanti.

I soldi. Sarebbero stati cinque, secondo la ricostruzione fatta dalla Finanza, i milioni di dollari derivanti dal tesoro distratto dal crack del Banco Ambrosiano, transitati "direttamente e indirettamente" da conti riconducibili a Gelli e Ortolani, destinati a servizi segreti deviati, ai Nar, fino all’ex primula nera Paolo Bellini. Il "quinto esecutore", per la Procura generale, della strage. E di quei cinque milioni, uno sarebbe quello utilizzato per organizzare, finanziare e mettere in atto la carneficina della stazione. Il 31 luglio 1980 a Roma, secondo le carte del fascicolo, ci sono Licio Gelli, registrato all’hotel Excelsior con il suo factotum, l’imprenditore toscano Mario Ceruti, Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, già latitanti, ma arrivati in aereo da Palermo sotto falso nome. I quali però hanno sempre affermato che quella mattina erano a Taranto. Quella, comunque, è l’occasione in cui Gelli o un emissario avrebbe consegnato ai Nar un milione in contanti. Passaggio ’provato’, per l’accusa, da un manoscritto trovato nella villa di Gelli, a Castiglion Fibocchi – qui verrà poi alla luce la lista con gli oltre 900 affiliati alla P2 – , il 17 marzo 1981 dove il venerabile annota di aver "consegnato contanti", "5.000.000-1.000.000 relativo al 20%, dal 20 al 30 luglio 1980". Pochi giorni prima della strage. Subito sotto, un secondo appunto, dove si parla di un "accredito di 4.000.000 di dollari alla Ubs di Ginevra l’1 settembre alle ore 11.30".

Bologna e gli artigli. Conti che tornerebbero anche in un secondo foglio sequestrato a Gelli il 13 settembre 1982, giorno dell’arresto: il cosiddetto ‘documento Bologna’, con la scritta Bologna – 525779 – X.S., in cui è riportato il numero di un conto aperto dal capo della P2 alla Ubs di Ginevra. Gelli, all’epoca, non rispose ai giudici in merito. Ma che avesse legami con la strage, per gli inquirenti è evidente pure dal ’documento artigli’, indirizzato all’allora ministro dell’Interno Amintore Fanfani. È la trascrizione della conversazione tra l’avvocato Dean, di Gelli, e il capo della polizia Vincenzo Parisi. È il 1987 e il legale respinge l’accusa a Gelli di "calunnia" (depistaggio) per la strage, giudicandola "tragicamente ridicola". E dopo avere ricordato come "questo ufficio possa fare molto per Licio", rivela che questi, se costretto da un interrogatorio, "tirerà fuori gli artigli". Il 23 novembre 1995, la Cassazione ha condannato in via definitiva per depistaggio Gelli, gli ufficiali del Sismi Giuseppe Belmonte, Pietro Musumeci e il faccendiere Francesco Pazienza.

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