Ci sono il color verde della dimenticanza e il color lama smussata: è uno di quei grigi che si associavano al lutto (oggi bianco e nero). Il color neve, invece, fa riferimento al contatto. E di che colore è la vaghezza? E il profumo? Quello che tocca lo trasforma in poesia Laura Imai Messina e vale anche per il suo ultimo libro ’Il Giappone a colori’ (Einaudi, con illustrazioni di Barbara Baldi) in cui scende in profondità nel mondo delle tinte giapponesi, raccontando un immaginario, una cultura tradizionale, un Paese in cui ha scelto di vivere ormai molti anni fa. Un lavoro in cui fonde la conoscenza della lingua nipponica, luoghi reali eppure magici in cui si trova conforto nel lutto, fino all’autobiografia. "È stato uno dei progetti su cui mi sono soffermata più a lungo – ammette –. Sono tutte queste sfaccettature a renderlo interessante". L’autrice ne parlerà lunedì 20 novembre alle 18.30, alla Coop Ambasciatori di Bologna, assieme a Paola Scrolavezza.
Come mai i giapponesi hanno concepito questa varietà di colori, di definizioni e sfumature? Merito della ricchezza della lingua o del pensiero sul mondo che vi è dietro?
"Avevano molto più tempo. Queste tinte sono nate nel 1100, il periodo Heian e della corte imperiale, in cui il tempo si trascorreva a mirare a un miglioramento di sé e la natura è sempre stato l’unico vero interlocutore culturale di tutte le arti. È interessante che sono rimaste, perché i giapponesi le rendono periodicamente ‘di moda’, passandole di generazione in generazione. Ad esempio negli ultimi anni sono nati tantissimi libri sui colori tradizionali del Giappone e questo ha fatto sì che molte tinte venissero fuori, insieme. Perché spezzettate le si trovava nell’arredamento, nei pantoni della carta da parati, nei vestiti, o come parole del linguaggio quotidiano".
Cosa ci insegna guardare dentro i colori?
"A guardare più attentamente fuori dal colore, darsi la possibilità di fermarsi e questo oggi pare un dono a livello riconosciuto: la lentezza".
Ci sono alcuni che l’hanno colpita particolarmente?
"Il color vaghezza. Ci sono cose che non sono descrivibili e per una scrittrice è particolarmente importante. Hai la consapevolezza del limite, da una parte c’è il desiderio di affrontarlo e superarlo, dall’altra c’è il confronto con il mezzo parola e ti rendi conto che non tutto il mondo è all’interno di quello, ma va inventato attraverso lo spostamento e l’affiancamento dei termini. Gli accostamenti nei colori giapponesi lo spiegano: mettere il nero assieme al corvo, e alle piume bagnate del corvo, è un passaggio che dà questo significato e lo rende affascinante".
Dopo il telefono del vento e l’isola dei battiti del cuore, ora l’ufficio postale alla deriva. Come mai proprio in Giappone si trovano posti così, dove si toccano mondo reale e psichico?
"L’ufficio postale sarà il luogo in cui ambienterò il prossimo romanzo. I posti magici ci sono, li sanno raccontare e li valorizzano. Non credo manchino agli italiani, ma forse il nostro limite è che le cose magiche riusciamo a sostenerle solo a livello personale, privato. Cose che richiedono un’organizzazione, una parte anche prosaica, concreta, in Giappone trovano terreno più fertile".
Cosa le manca di più dell’Italia? C’è un progetto che le piacerebbe portare avanti qui?
"Come dico sempre ironicamente, mi manca il bidet. Il mio lavoro di scrittura è sempre legato all’Italia, mi piacerebbe fare un podcast. Sto bene in questo oscillare, vorrei venire più spesso, anche se quando sto a casa non mi sposterei mai: è uno di quei nodi abbastanza insoluti che bisogna accettare".