"Irene non ha colpe, l’investitore era ubriaco"

Le motivazioni della sentenza di condanna a quattro anni per Davide Melillo. Il giudice: "Nessuna concausa, lei era ben visibile"

Irene Boruzzi, la 19enne travolta e uccisa lo scorso novembre sulle strisce pedonali

Irene Boruzzi, la 19enne travolta e uccisa lo scorso novembre sulle strisce pedonali

 

di Nicola Bianchi

"La condotta di Melillo, alla guida della propria auto in stato di fortissima alterazione psico-fisica per l’elevato tasso alcolemico, è indubbiamente caratterizzata da colpa ritenuta ai limiti con la colpa cosciente". E proprio per questo "non è possibile muovere alcun rimprovero alla giovane Irene". Nove pagine trancianti quelle del giudice Grazia Nart chiamata a motivare i quattro anni di condanna, per omicidio stradale, inflitti in abbreviato a Davide Melillo, 47 anni di Bologna, colpevole dell’investimento e del decesso della 19enne Irene Boruzzi (la famiglia era parte civile con l’avvocato Federico Fischer) il 12 novembre a Castenaso. Lui a bordo della sua Opel Astra, lei a piedi sulle strisce pedonali all’altezza della rotonda Zucchi: erano le 19.20 di una serata "con cielo sereno e traffico normale, in presenza di illuminazione pubblica", quando il mezzo fece volare a 26,30 metri di distanza il giovane corpo.

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Alcol e velocità. L’alcoltest non lasciò dubbi sullo stato di Melillo: 2.27 grammilitro il primo accertamento, 2.18 il secondo. Venne arrestato e in occasione della convalida ammise la responsabilità: "Non mi capacito ancora – disse davanti al gip Letizio Magliaro che applicò la misura dei domiciliari – di quello che è successo, non sarebbe mai dovuto accadere che mi mettessi alla guida in stato di ebbrezza. Sono affranto e chiedo umilmente scusa a tutta la famiglia, ai genitori e a Irene". Per il consulente della famiglia della 19enne la sua condotta fu "aberrante" e per le sue condizioni "non si rese conto della presenza della giovane che del tutto legittimamente attraversava la strada sul passaggio pedonale". Secondo lo stesso, la velocità di collisione della vettura fu di circa 74-75 chilometri orari, "un valore abnorme se contestualizzato al luogo del sinistro (la rotonda, ndr), ma assolutamente compatibile con le letali conseguenze".

L’Appello. Parte opposta, per il consulente della difesa la velocità sarebbe stata "non superiore ai 50", cosa ritenuta ora dal giudice "più frutto di considerazioni personali che non di calcoli scientifici", essendo sostanzialmente "basata su comparazioni grafiche e sulle caratteristiche dei luoghi che imponevano a Melillo di non superare i 50, ignorando del tutto lo stato di idoneità psicofisica in cui versava". Rigettata anche l’applicazione della circostanza attenuante, di cui all’articolo 589 bis comma 7, cioè la concausa nella produzione dell’evento, elemento che sarà al centro anche del ricorso in Appello già depositato dall’avvocato Giovanni Voltarella.

Nessuna concausa. Per il gup "anche volendo ammettere che la vittima fosse intenta a guardare il telefono in fase di attraversamento e che indossasse gli auricolari, non si ritiene che tali condotte possano avere un’efficienza causale autonoma nella verificazione dell’evento". Poi l’aggiunta: "La condotta di Irene, anche laddove fosse stata caratterizzata da distrazione, non avrebbe costituito una condotta illecita o capace di incidere sul decorso causale degli eventi e idonea a integrare un contributo concorrente". Soprattutto, chiude il giudice, come riferito da un testimone, "se si considera che la ragazza, al momento dell’impatto, si trovava già al centro della carreggiata", pertanto in "posizione ben visibile al conducente dell’auto anche grazie all’illuminazione notturna e al cielo sereno".

 

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