
L’avvocato Vittorio Manes, professore di Diritto penale all’Università di Bologna, fa il punto sul decreto sicurezza
"Se si dovesse arrivare a processo, potrebbe essere sollevata la questione di legittimità costituzionale". Sono le parole dell’avvocato Vittorio Manes, professore di Diritto penale all’Università di Bologna, all’indomani della maxi mobilitazione dei metalmeccanici, che venerdì hanno bloccato il traffico in tangenziale. Il decreto sicurezza, entrato in vigore il 10 giugno, trasforma in reato il blocco stradale (prima solo illecito amministrativo), che prevede, se compiuto in gruppo, la reclusione fino a due anni. Sulla carta, quindi, potrebbero ora essere denunciati i 10mila partecipanti al corteo. "Astrattamente – spiega –, la condotta di cui manifestanti si sono resi protagonisti rientrerebbe nella fattispecie della norma, con l’aggravante per di più". Questo "acutizza ed estremizza il contrasto e il conflitto con i diritti costituzionali, come la libertà di manifestare il proprio pensiero e di riunione. Se dovesse mai aprirsi un procedimento penale per questi fatti, si potrebbero anche sollevare dubbi di legittimità costituzionale". E poi, essendo di fronte alla possibilità che vengano denunciate 10mila persone, tutto questo "segnala già un difetto – fa notare il professor Manes –, un’eccedenza applicativa della norma. C’è un’evidente sproporzione per eccesso del raggio applicativo della norma rispetto ai principi costituzionali, oltre che rispetto alle sanzioni. Si va a comprimere inevitabilmente le libertà costituzionali". Non è un problema di questa maggioranza di governo, l’analisi di Manes: "È da 40 anni che in Italia si tenta di contrastare ogni irritazione sociale attraverso l’introduzione di nuovi reati o l’aggravamento della pena per reati esistenti. Questa è una grande illusione, una grande finzione: più diritto penale non equivale a più sicurezza. Allo stesso modo, minacciare più carcere non significa avere più sicurezza. Queste modifiche legislative hanno grande carica simbolica, i cittadini pensano infatti che si è fatto tanto per tenerli al sicuro quando invece non si è fatto proprio niente – incalza –. Il rimedio-panacea è sempre lo stesso e fa leva sul marketing delle emozioni, perché l’effetto che si ottiene con queste modifiche legislative non è, come si lascia intendere, un aumento della sicurezza, ma la contrazione della sfera delle libertà individuali. Ogni volta che si introduce un nuovo reato, il perimetro dello stato di diritto si accorcia. E questo è molto pericoloso in una democrazia, dove la libertà dovrebbe essere la regola e la sanzione l’eccezione, non il contrario. Invece, si va a comprimere la libertà di pensiero, di riunione, di esprimere le proprie opinioni".
L’espressione ‘pacchetto-sicurezza’ "sappiamo bene quanto sia suadente", sottolinea Manes, perché "unisce in una formidabile endiadi la promessa di completezza tipica di ogni confezione all inclusive a quella utopia irrealizzabile nella ‘società del rischio’ che è appunto la sicurezza della collettività. E ‘sicurezza’, nel lessico della politica e della comunicazione massmediatica, è una parola d’ordine – o una parola magica – al contempo ansiogena ed ansiolitica, e che qui si vorrebbe servire su un piatto d’argento, promettendo con un colpo di penna l’obiettivo rassicurante di una risposta pronta ed efficace ad ogni problema o irritazione sociale, quali che ne siano le cause, e soprattutto quali che siano le profilassi realmente opportune".
Lo Stato, così, "brandisce lo strumento penale come reazione sostitutiva rispetto a un intervento concreto sul piano delle politiche sociali che non è in grado di progettare". In altre parole, siamo di fronte, secondo Manes, a uno "sfoggio muscolare di forza esibita a scopi placativi", che "altro non è se non una manifestazione di conclamata debolezza".