Leonesi e gli altri amici ’Sullivan’

L’eterno ragazzo del Teatro di Massa si racconta nel nuovo libro: "Fo, un uomo di grande generosità"

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di Claudio Cumani

E’ uno di quelli che ha fatto il teatro a Bologna. Uno di quelli che ha attraversato epoche, incontrato icone ("Quando Dario Fo venne a pranzare a casa mia si mangiò un intero formaggio"), anticipato tendenze. Luciano Leonesi, a 92 anni, è ancora l’eterno ragazzo entusiasta che con il suo Teatro di Massa riusciva a esaurire nel 1950 per 15 sere il Comunale o a inseguire l’utopia del teatro di quartiere in un casolare semi-diroccato. E che più recentemente, finita da decenni l’avventura del Gruppo Teatrale Viaggiante e del San Leonardo, ha trovato la voglia di firmare regie per alcuni spettacoli al Dehon dell’amico Guido Ferrarini, scomparso proprio l’altro giorno. Adesso ha deciso di scrivere un libro, I Sullivan (Pendragon editore), che è una sorta di racconto divertito (‘letteratura affabulata’, la chiama il suo sodale Loriano Macchiavelli) dei migliori anni della sua vita. E, in fondo, anche di quelli di Ferrarini.

Maestro, ma chi sono i Sullivan?

"E’ la famiglia protagonista un film di Lloyd Bacon degli anni ‘40. L’ho visto un sacco di volte all’ex cinema Nosadella dove un tempo andavo tutti i giorni. Ci sono cinque fratelli che crescono insieme e decidono di non tradirsi mai. Quando uno resta indietro, gli altri lo aspettano. E’ la storia di noi cinque amici che abbiamo scelto la via del teatro nel Dopoguerra: io, Loriano Macchiavelli, Guido Ferrarini, Paolo Bondioli, Luciano Manini. Eravamo ‘cinni’, avevamo voglia di fare qualcosa".

Come mai si è avvicinato al teatro?

"Mio padre mi portava al circo, a vedere i burattini e a ridere al dialettale che allora si faceva nel Dopolavoro dei dipendenti comunali in via Barberia. Ho cominciato a inventarmi commedie che rappresentavo in un androne in via Valeriani, proprio davanti alla casa dove abitava Weisz, l’allenatore ebreo del Bologna. Cominciai a recitare qua e là e, nel Dopoguerra, un attivista del Pci mi contattò per un progetto rivoluzionario".

Il Teatri di Massa?

"Proprio così. Un’esperienza sconvolgente che prevedeva la presenza in scena di centinaia di attori non professionisti, braccianti, studenti, operai. E che rifiutava le scenografie, puntando sulla retroproiezione di sagome intagliate nel cartone. Da quell’esperienza sono usciti registi come Pontecorvo o i Taviani. Al Comunale di Bologna presentammo Sulla via della libertà e per rappresentare la battaglia di porta Lame entrarono in scena i veri partigiani, quelli che quello scontro a fuoco l’avevano vissuto davvero anni prima. Ci esibimmo per lungo tempo anche ai Giardini Margherita". Era il momento di cercare nuovi linguaggi?

"In un certo senso sì, anche se quando a Bologna si formò il Teatro Sperimentale io ne uscii in fretta. Cosa interessava agli operai di Ionesco? Fu così che, nel segno di una scena autenticamente popolare, fondammo il Gruppo Teatrale Viaggiante. La nostra idea di portare il teatro a domicilio nelle Case del popolo si scontrò con la realtà. Il Pci non ci aiutava, i Circoli chiedevano di fare soprattutto balera per guadagnare qualche soldo e noi ci ritrovammo emarginati. Alla fine il Comune ci affidò una sede. il San Leonardo in via San Vitale".

Fu in quegli anni che conobbe Fo?

"Lo incontrai quando al Duse recitava La signora è da buttare e aveva chiesto all’Arci di aiutarlo a riempire di studenti la platea di mattina. Stava provando Mistero buffo e voleva vedere l’effetto sui ragazzi. Fu un trionfo. Era un uomo di grande generosità: ci chiese anche di andare in tournée con lui ma nessuno di noi riuscì a liberarsi dai proprio impegni e non se ne fece nulla". Con Fo vi misuraste poi a distanza su uno spettacolo incentrato sulla Palestina?

"E’ vero, affrontammo la questione su sponde opposte: noi stavamo dalla parte di Arafat, lui no. E’ l’eterno guaio della sinistra, quello di dividersi. Pare comunque che il nostro spettacolo fosse più bello del suo".

Perché il GTV si sciolse?

"Per consunzione, eravamo stanchi e spossati. Il San Leonardo restò chiuso per un po’ e poi venne affidato a metà anni ‘70 a Nuova Scena. Fummo noi comunque a lanciare quel teatro".

L’idea di una scena combattente è andata sfiorendo...

"Oggi anche l’aggettivo popolare sembra ridondante e superato. Al Dehon con Guido abbiamo imboccato un’idea di teatro maturo. Dall’entusiasmo ideologico si è passati a un giusto pragmatismo culturale".

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