L’ultimo deportato inaugura il suo monumento

Giuseppe De Franceschi è l’unico superstite vivente del rastrellamento nazista del 7 ottobre 1944, che coinvolse 150 persone

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È l’ultimo dei sopravvissuti alla deportazione che il 7 ottobre del 1944 vide i tedeschi occupanti prelevare 150 persone dalle loro case, a Monte San Pietro, per avviarli ai campi di lavoro e prigionia in Germania. Di loro ben pochi tornarono vivi. Fra essi Remo Zanna, Mario Venturi, Gino Ventura, Ferdinando Crepuscoli, Rinaldo Marchi e lui: Giuseppe De Franceschi.

A distanza di oltre 77 anni da quella data solo lui ha potuto rispondere all’invito del Comune di Monte San Pietro che nei giorni scorsi nell’orto-giardino Biricoccolo ha inaugurato un originale monumento in ricordo dei tragici anni di guerra, fino alla Liberazione. A 96 anni, lucido nella sua memoria, autonomo con la sua ‘zanetta’ a sostenere le gambe stanche, ancora una volta, davanti alle telecamere, ha raccontato i fatti salienti della sua prigionia e di come si salvò dai campi di concentramento in Germania. Non si è mai stancato di raccontarla ai famigliari, agli avventori del bar di Zola dove ha lavorato per tanti anni, ma soprattutto ai bambini delle scuole elementari e medie che hanno sempre ascoltato con attenzione il racconto di questo sopravvissuto, capace di condire col sorriso e una battuta di spirito anche i fatti più drammatici. Vicenda che è approdata anche sul palco del teatro di Marinella Manicardi e che ha il punto di partenza in quell’alba del 7 ottobre 1944 quando De Franceschi aveva 18 anni e venne prelevato dai tedeschi dalla casa della sua famiglia ai Loghetti per essere condotto al campo di smistamento di Fossoli. Da lì fu caricato su un carro bestiame che venne aperto solo due giorni dopo, per entrare in un campo di detenzione e lavoro presso Belzig. Pesava 70 chili.

In quel campo trascorse sei mesi di lavoro forzato nella fonderia che sfornava gli acciai dei carri armati Tigre. Mesi tremendi: "Io resistetti a tutto, le orecchie mi sanguinavano per il rumore. Forse è per questo che sono diventato sordo". Le tappe fondamentali di quell’odissea li scrisse a matita in un taccuino che ha intitolato, programmaticamente: ‘Chi la dura la vince’. E fu così, perché nel 1945, una mattina prima di Pasqua, i prigionieri si accorsero che nella notte le guardie erano scappate. I russi erano vicini. Quel giorno Giuseppe iniziò a piedi un percorso di 510 km per tornare a casa. Ma prima passò da un altro campo, a poca distanza: "Da dietro ai nostri reticolati si sentiva fortissima una musica di valzer. Pensavamo fosse una festa di paese e quando i tedeschi fuggirono via andammo in quella direzione. Entrammo per primi in un campo di sterminio in piena campagna. Al centro del cortile un cumulo enorme di cenere nera. Nella fornace i condotti del gas e in un capannone uno strato di sei metri di vestiti. Fu la puzza a farci capire tutto: avevamo trovato la ‘infermeria’".

Per ritornare a Monte San Pietro impiegò quasi 4 mesi. Quando si affacciò sull’uscio di casa aveva 19 anni, fecero fatica a riconoscerlo, pesava 37 chili.

Gabriele Mignardi

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