Bologna, 27 febbraio 2015 - Intendiamoci subito bene e badiamo all’uso sbrigativo delle parole. Bologna, la città di Bologna, non è posto di mafia. Non ci sono mandamenti segreti. Non capi dei capi. Né boss confinati qui. E neanche ’ndrangheta, famiglie calabresi, picciotti o sgarristi. Non confondiamo città e territorio. Non siamo Reggio Emilia e la sua provincia, se ci si vuol riferire ai recenti, pesantissimi risultati dell’inchiesta Aemilia condotta dalla Dda. La linea della palma (e del caffè forte), la pianta del sud del Mediterraneo, della Sicilia, nel cui lento, continuo spostamento verso nord lo scrittore Leonardo Sciascia individuava con illuministica preveggenza il diffondersi del morbo mafioso nelle più evolute regioni italiane, non tocca le Due Torri. Volteggia intorno tra la pianura padana e l’Adriatico, per ora, e come certe alluvioni colpisce vicino in modo catastrofico. Non qui, finora.
Ci sono, tuttavia, le dichiarazioni del procuratore capo Roberto Alfonso, su cui sarebbe irresponsabile passare sopra. Più che dichiarazioni, le sue, sono parti organiche, e anche realisticamente crude, di un messaggio, a partire da «una regione che la popolazione e gli amministratori ritenevano immune ed esente dai mali che affliggevano le altre regioni», mentre «questa immunità non c’era e della stessa malattia si era ammalata pure la regione Emilia Romagna, sicché di questo ora bisogna tenere conto».
Le spese folli dei nostri consiglieri, senza creare nessun collegamento con pratiche ancora peggiori, non sono piaciute al magistrato. «Fino a quando giravano soldi – prosegue Alfonso –, più facilmente arrivavano e meglio era. Quello, invece, anche in mancanza di fatti delittuosi gravi, era un segnale che andava colto. Qui il percorso, il Cavallo di Troia, sono stati i soldi, c’è poco da fare». Soldi sporchi. Appalti, cooperative opache e acchiappatutto, aggiudicazioni non trasparenti. Sfogliate i giornali e vedrete che se ne parlava già nei primi anni ’90. Dunque un problema di controllo e di trasparenza istituzionale, di misure anticorruzione, esiste, ed è grosso come una casa. Le gare per opere pubbliche al minimo ribasso, senz’altra verifica della qualità della proposta imprenditoriale. Inquinamenti vari nella realizzazione di infrastrutture, dal Civis – che non fu solo un disastro tecnico e urbanistico – all’Alta Velocità, nel segno della leggerezza spesso colpevole nei subappalti. Si vigila, o si vigila meglio di prima - se non è tardi - da parte di Palazzo d’Accursio e viale AldoMoro (francamente inutile, e un po’ troppo scopertamente difensivistico chiedere, com’è stato fatto da alcuni amministratori regionali, che Alfonso faccia nomi; non ci sono inchieste in corso?).
E si programmano incontri pubblici con don Ciotti e con la Bindi. Purché si operi, anziché limitarsi a discutere, perché un allarme lanciato senza essere seguito dai fatti si trasforma in allarmismo. La domanda è se davvero non sussista ancora, nell’immaginazione collettiva, il patetico, rovinoso tabù secondo cui qui certe cose non possono succedere, e duqnue non devono essere tema di dibattito, poiché «nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino» come cantava Lucio Dalla e il nostro sistema socio-produttivo è una roccia contro la malavita organizzata. Che, là dove c’è, non nuoce meno alla città dei vandali e dei professionisti del degrado che turbano i giorni e le notti, e anzi si fa forte di potersi mantenere dietro le quinte grazie alle miserabili malefatte di costoro. Diceva Paolo Borsellino: «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». E tanto più se non c’è. Come a Bologna. ..