Marina Gamberini "La foto simbolo? Il mio urlo chiede ancora giustizia"

Anatomia dell’istante che ha fatto il giro del mondo: "Avevo vent’anni, gridavo contro un orrore senza fine Stesa sulla barella, vidi il mio responsabile. Con gli occhi volevo chiedergli il perché di quell’apocalisse"

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di Gilberto Dondi

"Ricordo esattamente il momento in cui fu scattata quella foto. Ero stata sotto le macerie per più di due ore e i soccorritori mi avevano appena tirata fuori. In quell’urlo e in quegli occhi c’è tutto: la mia voglia di gridare che ero ancora viva, ma anche la disperazione, il terrore e l’incredulità per un orrore troppo grande". Marina Gamberini è passata alla storia, suo malgrado. La foto che la ritrae mentre viene portata via in barella è infatti diventata il simbolo della strage alla stazione. Per anni quell’immagine l’ha perseguitata, tanto da non riuscire a guardarla. È arrivata perfino ad odiarla. Poi, piano piano, Marina ha ripreso in mano la sua vita e ha fatto pace anche con quell’immagine in bianco e nero che mostra il viso sconvolto di una ragazza di vent’anni appena scampata all’apocalisse.

Cosa ricorda di quel momento?

"Tutto. I miei salvatori mi stavano portando all’ospedale, ero ferita, avevo una frattura al cranio e altre ferite. In quel momento sentii uno dei miei direttori, Attilio, che mi chiamava. Mi aveva riconosciuto. Lo scatto ha ripreso l’attimo in cui stavo urlando tutto il mio dolore. E allo stesso tempo cercavo Attilio con gli occhi, pieni di sbigottimento e disperazione, per chiedergli cos’era successo, qual era la causa di quell’immane tragedia. Una domanda senza risposta, ovviamente".

Lei lavorava assieme alle sue colleghe nell’ufficio della Cigar al primo piano, proprio sopra la sala d’aspetto...

"Sì, ero giovane e spensierata. Avevo vent’anni e un buon lavoro. Poi accadde. Non ricordo nulla di quello che è successo prima, solo la ‘sepoltura’ successiva, quando mi sono ritrovata sotto le macerie. Non ricordo nemmeno il rumore dell’esplosione. Io e una collega ce l’abbiamo fatta, siamo scampate alla morte. Ma tutte le altre no: Mirella, Rita, Katia, Euridia, Franca, Nilla. Loro non ci sono più e io mi sono sempre sentita in colpa. Ho sofferto tanto. Sono in terapia ancora oggi, la chiamano la sindrome del sopravvissuto".

Da allora lei si è battuta per tenere viva la memoria delle sue colleghe e ottenere giustizia.

"Ci sono voluti anni, ma poco a poco ho rimesso insieme i pezzi e ho cercato di uscire dal senso di colpa, facendo tutto in funzione di una sola cosa: mantenere vivo il ricordo delle mie amiche e colleghe. Era l’unico modo per dare un senso alla loro morte, far sì che fosse un seme che germoglia, come mi ha detto il papà di un’altra vittima, Franca Dall’Olio".

Per questo oggi va nelle scuole a parlare con i ragazzi?

"Certo. Raccomando loro di non fidarsi della prima cosa che leggono sui giornali o vedono in tv, ma di approfondire per farsi una loro idea e cercare la verità con la loro testa. È fondamentale che i ragazzi sappiano e non dimentichino ciò che è successo a Bologna il 2 agosto 1980".

Lei va in piazza ogni anno. Questo sarà un anniversario speciale, il quarantesimo...

"Ho sempre partecipato alle manifestazioni, non appena le mie condizioni di salute me l’hanno permesso. Per me non è mai stato facile, ma sentivo di dover esserci. Solo una volta sono andata via. È successo nell’87 o ’88: sono finita in un’isola della Jugoslavia. Volevo stare lontana da Bologna, proprio quel giorno, credevo fosse terapeutico. Ma ho sofferto ancora di più. È stata una sofferenza tale che non mi sono mai più allontanata".

Quest’anno però, a causa del Covid, non ci sarà il corteo.

"È un errore. Hanno riaperto le spiagge, le discoteche, trovo strano che non si possa fare un corteo, rimanendo distanziati e con la mascherina. Comunque nessuno potrà impedirmi di andare alla stazione, quindi lo farò anche quest’anno. E, come sempre, resterò fuori dalla sala d’aspetto. Non ci sono più entrata e non ci entrerò mai".

Lei è sempre stata presente anche ai processi, fin dall’inizio, negli anni ’80, per arrivare a quelli degli ultimi anni, dove non si è persa un’udienza.

"Tutti dovrebbero venire ad assistere ai processi, soprattutto i giovani. Capirebbero molte cose. Io ho iniziato a frequentare i tribunali a 23 anni, non capivo nulla, è stato molto difficile. Il nostro avvocato di parte civile di allora ci voltò le spalle, si schierò contro di noi. Fu terribile. Ancora oggi ho una fiducia limitata nella giustizia, perché ci sono sempre persone pronte a inquinare. Se non fosse stato per il Carlino, che raccolse soldi per noi, non so come avremmo potuto pagare le spese legali".

Però nel frattempo ci sono state le condanne dei Nar e adesso è arrivata pure l’accusa, proprio a Gelli, di essere uno dei mandanti della strage...

"Un grande passo avanti. Vedere i Nar in aula è stato doloroso, quelle persone, invece di confessare finalmente tutto quello che sanno, hanno detto cose inaccettabili, senza dignità. La condanna di Cavallini è stata il giusto epilogo. Poi ci sono i mandanti, però ci sono voluti 40 anni per arrivare ai loro nomi e Gelli ormai è morto. Noi chiediamo giustizia da troppo tempo. Siamo stati osteggiati da alcune parti delle Istituzioni, considerati dei disturbatori, ingannati. Ma non ci siamo mai arresi e non lo faremo mai. Nonostante il dolore. Il mio urlo di allora ha un senso ancora oggi: vogliamo la verità, tutta la verità".

 

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