Nel 1991 nomi e armi dei Savi erano già noti

Atti e "appunti" segreti dell’epoca lo attestano. Il sospetto su Alberto nel colloquio tra un dirigente Criminalpol e il procuratore di Pesaro

Migration

di Nicola Bianchi

Il 18 settembre 1991, i nomi dei tre fratelli Savi, e delle armi che detenevano regolarmente, erano già noti negli atti delle forze dell’ordine. Ma il loro arresto avverrà solo il 22 novembre di tre anni dopo. Il 14 gennaio 1991, il nome di Roberto, proprietario di ben due fucili AR 70 calibro 222, emerge da un atto della squadra Mobile sui possessori in Emilia Romagna di quell’arma. La stessa che, secondo quei primi accertamenti (poi confermati in giudizio), avrebbe sparato per l’eccidio del Pilastro. Il 7 marzo sempre del ’91, ecco invece il nome di Fabio, il poliziotto mancato dei tre fratelli, possessore di un Sig Manuhrin calibro 222, come da informativa del vicequestore di Rimini, Oreste Capocasa, inviata alla Criminalpol. Fucile che poi, in un atto Digos del 1995, diventa "inedito".

L’appunto. Mentre a settembre – questa la novità – tocca al nome di Alberto, quale probabile autore di una rapina nelle Marche, emerso in un incontro tra Criminalpol e Procura di Pesaro. Sono passati otto mesi dal massacro dei carabinieri al Pilastro (il 4 gennaio ’91 vennero assassinati Mitilini, Moneta e Stefanini) e il 18 settembre dalla Criminapol di Bologna viene redatto un "appunto" di due pagine. Nel quale si informa che quello stesso pomeriggio, un dirigente "che si trovava a Rimini per i noti fatti sulla riviera romagnola, apprendeva che, negli ambienti dell’Arma di Pesaro e Rimini, circolava voce di un accertamento sul conto di un non meglio indicato poliziotto riminese". I "noti fatti" riguardano la rapina alle Poste di Santa Maria delle Fabbrecce del 28 agosto, bottino 7,7 milioni delle vecchie lire. L’appunto continua: "Constatata la reticenza degli ambienti dell’Arma nel fornire spiegazioni in merito", il dirigente Criminapol decide di recarsi "immediatamente dal procuratore di Pesaro, dottor Savoldelli, accompagnato dal dirigente di quella squadra Mobile e dal suo vice".

L’identikit. Nell’anticamera del magistrato, il funzionario di polizia incontra un ufficiale dei carabinieri il quale "ammetteva l’esistenza dell’accertamento, affermando che l’Arma era in possesso della fotocopia di un documento d’identità dell’agente e che lo stesso, a suo dire, somigliava a uno degli identikit compilati" in occasione della rapina. Il carabiniere però "negava" di ricordare il nome.

Solo un "ficcanasare". Si arriva al colloquio con il procuratore, il dirigente di polizia chiede lumi "di quanto risultasse in merito alle indagini dei carabinieri". Savoldelli, continua l’appunto ritrovato dallo scrittore Massimiliano Mazzanti, "in evidente imbarazzo, nel tentativo di minimizzare", affermerà che "più che di indagini, si trattava di un ’ficcanasare’". E che comunque "tutto traeva origine da accertamenti svolti dai carabinieri presso il poligono di Rimini". Motivo? "Molti degli episodi criminosi (fino a quel momento la banda della Uno Bianco aveva ucciso 19 persone e oltre 60 rapine in tre diverse regioni, ndr) sono stati contrassegnati dall’utilizzazione di bossoli ricaricati".

"L’operaio e la Polaria. Sempre secondo il magistrato, quegli accertamenti dell’Arma avevano detto molto di più. "Un operaio del poligono era solito raccogliere bossoli vuoti" e un suo fratello, "agente della polizia attualmente in servizio alla Polaria di Rimini, somigliava ad uno dei surrichiamati identikit". E il poliziotto, aggiungerà Savoldelli, si chiama "Salvi o Savi". Dubbio subito risolto dalla verifica "presso il dirigente del Commissariato Polstato di Rimini", il quale "permetteva di appurare che alla Polaria è effettivamente in servizio un agente di nome Savi Alberto, di anni 28, coniugato, residente a Verrucchio". E conosciuto "come ottimo elemento".

Niente Savi dal pool. L’approfondimento di quell’interessante notizia, chiudeva la nota, "è stato rinviato a domani per motivi di riservatezza". Ma nell’appunto del giorno successivo (il 19), firmato da due dirigenti di polizia di Bologna, sul summit di Riccione del "gruppo investigativo" con le Mobili di Forlì, Pesaro, Ravenna e i commissariati di Rimini e Cesena, di quell’Alberto Savi e del fratello operaio non si farà cenno.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro