Non solo droga: storia nera di un quartiere duro

Dagli anni ’60 ad oggi, corsi e ricorsi di una zona difficile, per sempre ferita dal massacro dei carabinieri trucidati dalla Uno Bianca

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Ci sono quartieri che si portano una maledizione addosso. Il Pilastro è uno di questi. Da anni tenta di scrollarsi quest’immagine di ghetto, fuori dalla legalità, dove la giustizia è una questione che si deve amministrare solo in famiglia. E dove, quando si sentono le sirene, via Deledda, via Frati, via Natali e via Trauzzi si svuotano d’un colpo. La brava gente, tra i palazzoni di edilizia popolare, non manca di certo. Ma nell’attesa dell’apertura della caserma dei carabinieri, promessa da anni e che, si spera, si concretizzerà a inizio 2022, si è assuefatta a questa vita ai margini della legalità. Qui tutti sanno tutto. Ma è meglio evitare di parlare per non passare i guai.

Il Pilastro è così. Un calderone di nazionalità e culture che abbraccia gli ultimi. Ma ancora, malgrado gli sforzi, chi amministra questa periferia dura, non riesce nel compito più difficile: integrare il Pilastro con l’altra Bologna. È così da sempre. Dagli anni ’60, quando qui prendevano casa i lavoratori immigrati dal Sud; e oggi, dove gli ultimi hanno cambiato faccia e lingua.

Il Pilastro ha visto pagine buie e dolorose. La più nera si è consumata il 4 gennaio del 1991, quando i killer dell’Uno Bianca qui uccisero, crivellandoli di colpi nella nebbia, i tre giovani carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini. Prima che in Questura scattasero le manette per i poliziotti traditori della banda dei fratelli Savi, furono i pilastrini Santagata a finire, ingiustamente, in carcere con quell’infamante accusa di omicidio. Nel ’93, anche sulla scia di quei sospetti poi smentiti dalla storia, 191 persone vennero arrestate nel rione popolare, nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta ’Quinta mafia’. Il Pilastro nascondeva rapinatori e bancomattari, sicuramente. Ma non gli assassini dei tre carabinieri. Che furano arrestati soltanto un anno dopo, nel posto dove nessuno pensava di poterli mai trovare.

Negli anni che inquadrano quel massacro, che resta ancora una ferita aperta, il Pilastro iniziava a cambiare faccia. Le famiglie straniere si moltiplicavano numerose, occupando, con cognomi dal suono nuovo, i campanelli dei palazzoni Acer. E i figli di quella gente, ragazzini lontani dalle luci di via Indipendenza e piazza Maggiore, cominciavano a sostituire o accompagnare i coetanei nostrani nel piccolo spaccio sotto casa. Lo fanno ancora, disturbati soltanto dall’arrivo della polizia quando succedono fatti grossi. Pure l’altro giorno, ciondolavano sotto ai portici, sperando che le volanti si allontanassero il prima possibile per tornare al loro lavoro.

Lo spaccio resta la piaga più purulenta del Pilastro. Intorno a debiti o invasioni di campo, periodicamente ripartono le guerre della droga. Fanno feriti, a volte ci scappa il morto. Nell’agosto 2019, Nicola Rinaldi, 28 anni, fu accoltellato a morte dal vicino Luciano Listrani, in via Frati. Il ragazzo doveva essere ai domiciliari, ma era andato a riscuotere un debito a casa dell’uomo, genero di un suo socio in affari. È morto dissanguato sul marciapiede. Il suo assassino, arrestato dalla polizia, ora sconta 14 anni di carcere. Lo spaccio, a seguito di quei fatti, è stato anche al centro della campagna elettorale della Lega, per le scorse elezioni regionali. In via Deledda arrivò il leader del Carroccio Matteo Salvini che qui fece la famosa citofonata. Si alzò un polverone. Ma effettivamente, in quella casa si spacciava: i coniugi Labidi-Razza a gennaio scorso sono finiti in manette dopo che i carabinieri hanno trovato in casa loro armi e un market della droga.

E la cocaina è il motore che ha acceso anche la sparatoria dell’11 maggio scorso in via Natali. Il ferito, un ventiseienne marocchino, se l’è cavata con una prognosi leggera. L’aggressore, Abidi Ala, tunisino di 28 anni, fuggito in Germania, è stato arrestato pochi giorni dopo dalla Squadra mobile. Corsi e ricorsi, guardie e ladri, in una storia infinita di marginalità ogni volta diverse. Ma sempre figlie dello stesso disagio.

Nicoletta Tempera

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