Omicidio Balboni, ora la coppia del veleno vuole un nuovo processo

Rita Di Majo e il marito Claudio Furlan, condannati, vanno in Cassazione. Il legale: "Serve una perizia psichiatrica, sempre rigettata. Si torni in aula"

Rita Di Majo e il marito Claudio Furlan sono stati condannati a 14 e 12 anni

Rita Di Majo e il marito Claudio Furlan sono stati condannati a 14 e 12 anni

Bologna, 28 settembre 2022 - ​Serve una perizia psichiatrica, inoltre la doppia condanna sarebbe "eccessiva" perché la morte di Vito Balboni "non era prevedibile", causata da una "patologia ignorata in vita dallo stesso e dalle persone a lui vicine". Rita Di Majo e il marito Claudio Furlan non mollano e, detenuti alla Dozza da gennaio 2020, entro fine anno discuteranno le loro ragioni davanti alla Suprema Corte di Cassazione chiedendo la riforma della condanna della Corte d’Appello o in subordine un nuovo processo. "Ciò che contestiamo – spiega l’avvocato Giancarlo Tunno – è il rigetto della Corte di una perizia psichiatrica. Ecco perché ora chiediamo di cassare la sentenza e rinviare ai giudici di appello affinché venga disposto l’accertamento in un nuovo dibattimento".

Esattamente un anno fa i giudici d’Appello confermarono in toto la sentenza in abbreviato del gup Sandro Pecorella per la morte del 61enne ferrarese – originario di Copparo ma residente a San Giorgio di Piano –: 14 anni alla napoletana Di Majo, 12 anni al marito bolognese Furlan. Ritenuti pure "soggetti socialmente pericolosi". Responsabili di aver messo nella birra di Balboni – rappresentato dall’avvocato Roberto Testa, parte civile per moglie, madre e gli otto fratelli della vittima – Rivotril e Nozinan la sera del 31 ottobre 2019 per stordirlo e rapinarlo del bancomat per effettuare 11 prelievi da 1.900 euro tra San Lazzaro, Cadriano e Bologna. Lasciandolo, infine, agonizzante sulla sua Clio in un parcheggio di Castenaso la notte tra il 31 ottobre e l’1 novembre 2020, ritrovato cadavere cinque giorni dopo.

PERIZIA

Due gradi di giudizio, però, che non avrebbero tenuto conto, secondo la difesa, dello stato della coppia. In particolare della Di Majo – pregiudicata, che ha sempre riversato la responsabilità sul marito e già in passato avvelenò a scopo di rapina un’altra persona –, "osservata da dottori e psichiatri del carcere", la quale "aveva dato segni di squilibrio o manifestato deficit legati a patologie o sindromi denotanti malattie psicopatologiche o di forte compressione della sfera emotiva e volitiva". Insomma un "disturbo della personalità" che, a detta dell’avvocato Tunno, doveva essere analizzato da un consulente.

"GRAVI PATOLOGIE"

Per entrambi viene chiesta l’assoluzione per il reato 586, la morte in conseguenza di altro reato (l’avvelenamento con i farmaci nella birra) perché "l’accertamento della prevedibilità dell’evento risulta frutto di assoluta presunzione". I fattori che concorrono "alla triste fine di Balboni – così il ricorso – vanno ricercati oltre la condotta posta in essere dagli imputati". La vittima, sostiene ancora la difesa, "era affetta da gravi patologie e presentava una cardiomiopatia ipertorfica", malattia però "ignorata" sia dallo stesso che dai familiari. "Quanto basta per escludere che terzi potessero esserne a conoscenza".

Un ’riesame’ di "personalità e condotta", infine, viene chiesto per Furlan. Fin dal primo momento lui si addossò ogni colpa, cercando di salvare e nascondere l’amatissima donna, invocando per sè addirittura il carcere per starle vicina. E quando lei decise di lasciarlo, cercò il suicidio ma venne salvato dai carabinieri in extremis. Fu lei, secondo gli atti, a incontrare Balboni e a mettere il veleno nella bevanda, con Furlan che entrò in scena solo in un secondo momento. "La sua condotta si sostanzia nel rispondere positivamente alla richiesta di aiuto della Di Majo", "intervenuto in un momento successivo rispetto alla somministrazione dei farmaci". Furlan, insomma, non "poteva essere a conoscenza delle intenzioni criminose dell’amata".

 

 

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